Zadie Smith è entrata nel novero delle mie autrici preferite pagina dopo pagina, grazie alla sua profondità e alla sua capacità di costruire personaggi complessi, proposti con sconcertante sincerità in tutte le loro contraddizioni.
Nel romanzo L’Ambasciata di Cambogia viene presentato un altro profilo perfettamente tratteggiato, quello della giovane cameriera, “schiava” (quasi) inconsapevole, Fatou.
La giovane è arrivata dall’Africa, passando dalla Libia e dall’Italia, per lavorare a casa della famiglia Derawal, che risiede a Willesden, dove è stata appena aperta l’Ambasciata di Cambogia, avvolta dal mistero per lei, visto che il suo interno le è precluso e può solo immaginarlo dai “rumori” derivanti da una partita di badminton.
Senza passaporto, senza uno stipendio ‒ il suo salario viene usato per pagare vitto e alloggio ‒ la ragazza accetta la sua condizione di subalternità con rassegnazione e orgoglioso silenzio.
Si concede solo qualche atto di ribellione: usare dei buoni omaggio destinati ai “padroni” per nuotare in un albergo di lusso e coltivare in segreto l’amicizia fraterna con Andrew, che le permette di sfogarsi, di saziare in qualche modo la sua sete di comunicazione e di sapere.
Fatou infatti ha un spirito critico, valuta il modo in cui i deboli, lei compresa, reagiscono ai soprusi e l’Ambasciata simboleggia proprio le storture della Storia oltre che quella componente misteriosa presente in ogni esistenza. Vuole capire se stessa, il mondo che la circonda il male e cerca delle risposte nella fede, forte nonostante abbia molti dubbi.
Il suo cammino è continuamente in salita, eppure resta granitica, pronta ad affrontare tutto con la fierezza che le è propria e a rivendicare i suoi piccoli, ma importanti -momenti di autodeterminazione.
Breve eppure perfettamente compiuto, il libro è un vero sfoggio di maestria narrativa e di analisi psicologica, un capolavoro che non solo chi ama la lettura, ma anche chi apprezza la buona scrittura non può perdere.
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