Un libro e un caffè

"Leggere è sognare per mano altrui". Fernando Pessoa, Il libro dell'inquietudine.

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“Ritratti veri di persone immaginarie” di G.Camuffo e R. Di Renzo (Helvetia editrice, 2021)

Siamo fatti di storie, gioie, dolori, pregi, idiosincrasie; siamo fatti di un involucro esterno, che a volte non riflette quello che abbiamo dentro e di un’interiorità ricca, a volte misteriosa. Proprio sul contrasto tra immaginazione e tra quello che pensiamo e quello che è davvero, si basa l’opera Ritratti veri di persone immaginarie”. Gli autori “giocano” a costruire la storia, ipotetica, di alcune persone, sempre ipoteticamente viste per caso.

Il risultato è una galleria di ritratti ricchi di umanità, costruiti sui chiaroscuri che sono parte costituiva dell’uomo. Incontriamo così Aurelio che ha gli occhi stanchi e ora si prende cura della donna che ama, Bice col suo velo di tristezza negli occhi, l’umore malinconico e un errore di cui deve pagare lo scotto o Amali, la “figlia strana del vicino” che ognuno di noi può aver incontrato.

Dissacranti e delicate al tempo stesso, piene di una pirandelliana ironia, le descrizioni dei personaggi concise e brevi, raggiungono tutte l’intento di fare riflettere e in alcuni casi di emozionare.

Il testo di Giorgio Camuffo e Renzo Di Renzo mi pare attualissimo, visto che viviamo in una società ormai attentissima all’immagine, in cui sempre di più si pone la questione di mostrare o meno l’autenticità e la fragilità e in cui, attraverso l’utilizzo dei social, si tende sempre più a costruire un modo parallelo che non sempre corrisponde al vero. LA costruzione della propria immagine è vista come una corazza, ma serve davvero?

L’opera mi ha fatto poi riflettere su quanto sia importante non fermarsi in superficie quando nei rapporti con gli altri e su quanto a volte le prime impressioni che ci facciamo o gli altri si fanno siano ingannevoli.

Questo libro è sicuramente un bell’esercizio di immaginazione, che come sempre, aiuta a guardare più a fondo e più lontano e un ottimo pretesto per indurci ad osservare il mondo con occhi più profondi.

“Due città” di J.Á. González Sainz (Helvetia editrice, 2022)

“Ci sono spazi nascosti in una città, vita nascoste e vacuità nascoste, e finestre più buie dove le ombre delle persone passano fugacemente fuori dalla nostra vista”.

(Kate Milford)

 

“Due città” è il titolo del volume che raccoglie due racconti di J.A. Gonzalez Sainz, incluso nella colla Taccuini d’autore.  Nel primo testo, “Una leggere differenza di espressione”, è Trieste a fare da sfondo al racconto, che ruota intorno alla sparizione improvvisa e inaspettata di un uomo; il secondo racconto, “L’altra strada”, il secondo racconto, è ambientato a Venezia e al centro della storia ci sono le riflessioni di un uomo, indeciso se seguire la strada che percorre abitualmente oppure deviare e soddisfare la curiosità di provare un percorso diverso.

Ad essere rappresentate nelle pagine dell’opera sono incognite, vite che si incontrano e si perdono lungo le strade di due luoghi diversi, ma entrambi simbolo del dubbio e delle possibilità che forse non arriveranno mai o non saranno mai colte. Lo spazio fisico si dilata attraverso le parole e le pagine, diventando metafora e pretesto per addentrarsi nelle strade altrettanto vere della vita di ognuno e dei suoi possibili bivi.

Lo stile dell’autore elegantissimo e volutamente elusivo, ellittico in alcuni momenti da al lettore la possibilità di trarre le proprie conclusioni e pare perfetto per esprimere il senso di precarietà, di insicurezza proprio non solo dei luoghi, ma anche dell’esistenza umana.

La lettura di “Due città” è davvero un viaggio nel quale le pause e il percorso sono più importanti della destinazione, o per meglio dire delle risposte che il lettore forse vorrebbe. Il finale degli scritti è aperto, gli interrogativi sono sicuramente molti e le certezze poche, ma è  questo a  rendere unico e intrigante il libro che vi ho presentato.

“Cuore di serpente” di Giovanni Montini (Bertoni Editore, 2022)

Giulio Martinelli, uno scrittore quarantenne alla ricerca dell’inspirazione per il suo prossimo libro e in crisi esistenziale, accetta la proposta della sua amica Francesca e trascorre alcuni giorni di vacanza nella sua villa. L’arrivo del giovanissimo figlio acquisito di Francesca sconvolgerà la vita di Giulio che si innamorerà perdutamente di lui, portandolo a rivedere tutte le sue convinzioni e priorità. Il ragazzo, inoltre, farà riemergere vecchi dolori, dissapori e segreti inconfessabili, dando il via ad una spirale di eventi che renderanno quella torrida estate del 1977 un punto di svolta nell’esistenza dei personaggi. Dopo quel soggiorno al Circeo, niente sarà più lo stesso. In questa sorta di bolla artificiale e artificiosa creatasi intorno a Giulio, Andrea, Francesca, Nicoletta e Gabriele, si sente il riverbero degli accadimenti sociali e politici verificatisi in Italia in quel periodo, in una fusione ideale tra “pubblico” e privato che è, oltra all’azione, un altro elemento costituivo importantissimo del testo.

“Cuore di serpente” è un romanzo intenso, che si regge su un ben riuscito e intricato gioco psicologico intessuto a partire dalle fragilità, dalle pulsioni e/o intenzioni nascoste dei protagonisti, dal loro lato più oscuro.

Ognuno di loro nasconde qualcosa, ognuno di loro è insoddisfatto e fa trasparire solo quello che decide di far vedere, ognuno di loro, forse, ha un cuore di serpente.

L’atmosfera tesa da vero e proprio thriller, traboccante di sensualità, che definirei quasi decadente, fa sì che l’opera di Montini non lasci di sicuro indifferente il lettore con un suo stile bene definito.

La scrittura è curata, precisa ed è molto riconoscibile il suo taglio cinematografico, ben evidenziato dalle descrizioni dettagliate, ma anche in quella che mi è parsa, in alcuni momenti, una suddivisione dei blocchi narrativi in scene. Montini, infatti, si è dichiaratamente ispirato al film “La piscina” con Alain Delon e Romy Schneider.

Interni ed esterni ben ripartiti, visione d’insieme e focalizzazione sull’intimità dei soggetti presi in considerazione: tutto questo riesce a dare al testo una composizione omogenea e ben pensata. Ovviamente i colpi di scena non mancano.

Se amate le letture ricche di pathos e che permettono di scandagliare gli abissi dell’animo umano “Cuore di serpento” è il libro perfetto per voi.

Intervista a Dario Amadei ed Elena Sbaraglia, autori di “Mickey Mouse. La vera storia del Topo più famoso del mondo”.

Amate da sempre il mondo di Walt Disney e in particolare amate Topolino, una delle sue creazioni più celebri? Non potete, allora, non leggere “Mickey Mouse. La vera storia del topo più famoso del mondo”, il saggio di Dario Amadei ed Elena Sbaraglia, che ripercorre con un’accuratezza e una dovizia di dettagli davvero impressionanti, la nascita e il cambiamento di uno dei cartoni/ fumetti più famosi di tutti i tempi. Lascio la parola agli autori, che hanno gentilmente risposto alle mie domande e che racconteranno in modo più approfondito il loro scritto che ho letto davvero con enorme piacere.

Post scriptum con aneddoto: proprio nel momento in cui ho ricevuto la richiesta di leggere “Mickey Mouse”. La vera stori” sono usciti degli articoli che parlavano dell’uscita di alcuni numeri speciali di Topolino ambientati nella mia Basilicata. Se non è stato un segno del destino questo…

 

  • La prima domanda che vorrei porvi è questa: perché un libro su Topolino? Cosa vi ha incuriosito a tal punto da dedicargli un’opera così dettagliata, ed esaustiva?

Siamo sempre stati affascinati da Topolino e soprattutto dalla sua lunga storia quasi centenaria. Negli anni abbiamo raccolto tantissimo materiale che utilizziamo molto nei nostri laboratori scolastici e a un certo punto ci siamo resi conto che con tutte quelle informazioni sarebbe stato un peccato non fare un libro. Non un libro qualunque, ma la biografia romanzata del Topo più famoso del mondo, che incredibilmente non era ancora mai stata scritta. Così, grazie anche alla Graphofeel edizioni che ha appoggiato con entusiasmo il nostro progetto, è nato il libro “Mickey Mouse la vera storia del topo più famoso del mondo”.

  • In cosa differisce il Topolino dei fumetti dal Topolino dei corti animati?

Topolino è nato nel 1928 come protagonista di corti cinematografici ed era un personaggio scanzonato che ballava, cantava, faceva dispetti e soprattutto corteggiava, con alterna fortuna, Minni di cui è stato sempre innamorato. Nei fumetti di Floyd Gottfredson e poi dei suoi eredi, soprattutto della grande scuola italiana, il personaggio di Topolino ha avuto un’evoluzione diversa, diventando l’eroe di missioni impossibili e con il tempo un investigatore capace di risolvere i casi più intricati. Questo cambiamento, però, lo ha trasformato in un personaggio molto affidabile ma un po’ troppo serio e compassato e quindi non più adatto alle gag che sono un ingrediente indispensabile nei corti animati. Dalla metà degli anni ’50 è apparso solo nei fumetti, ma nelle serie televisive di questo millennio è tornato come protagonista anche dei corti con un restyling molto innovativo che però strizza l’occhio ai cartoni animati delle origini.

  • Una delle cose che mi ha colpito di più leggendola vostra opera è il rapporto di “Topolino” con il Cinema. Mi piacerebbe che questo argomento davvero interessante fosse da voi ulteriormente approfondito.

Walt Disney era molto affascinato dal cinema ed è stato un grande innovatore, un pioniere dei corti animati che ha reso sonori: tutti quelli che sono venuti dopo inevitabilmente si sono ispirati a lui. Ha creato tantissimi personaggi, ma era legato moltissimo a Topolino, che era la sua star indiscussa e tutti gli altri, senza di lui, non sarebbero mai esistiti. Chaplin era un grande ammiratore di Mickey Mouse e voleva che i suoi film fossero preceduti dalla proiezione di un corto di quel piccolo topo di cui anche Hollywood ha riconosciuto la grandezza, tanto è vero che gli è stata dedicata una stella sulla Walk of Fame e Disney, nel 1932, ha vinto un oscar onorario per la sua creazione. Una delle più famose interpretazioni cinematografiche di Topolino è quella dell’Apprendista stregone nel film Fantasia: alla fine della sua esibizione va a congratularsi con il direttore d’orchestra Stokowski e questo non è certo tipico di un disegno animato ma di una star del cinema a tutti gli effetti.

  • Leggendo l’opera si evince che Topolino è un personaggio estremamente “malleabile” che cambia col passare del tempo, che può adeguarsi alle mode pur rimanendo sostanzialmente se stesso o essere utilizzato per trattare tematiche particolari. Cosa è rimasto oggi del Topolino di un tempo e come potrebbe eventualmente cambiare in futuro?

Topolino è un highlinder, un immortale che ha attraversato le vicende di un secolo di storia descrivendole e prendendo posizione senza tirarsi mai indietro. È rimasto sempre uguale a se stesso adattandosi però ai cambiamenti ambientali, sociali e culturali senza mai soffrire, perché ha in sé un registro smisurato di interpretazioni. Noi vediamo nelle scuole che i bambini di oggi ancora conoscono le sue storie e lo amano come lo amavano i loro genitori, i loro nonni e anche i genitori dei loro nonni. Se ci si ferma un attimo a riflettere su ciò ci si rende conto della grandezza di questo personaggio. Cosa è rimasto del Topolino di un tempo? La risposta è semplice, è rimasto tutto perché tutto quello che ha fatto fa parte del suo DNA e ci sono dei geni dormienti pronti però a esprimersi nuovamente quando la situazione dovesse richiederlo e disponibili nello stesso tempo ad arricchirsi con nuove informazioni suggerite dai cambiamenti. Per questo Topolino continua ancora a piacere dopo cento anni, perché ognuno può in qualunque epoca riconoscersi in lui.

  • Mi piacerebbe che parlaste al pubblico di Romano Scarpa, figura che, in tutta onestà, non conoscevo e che ha rivestito grande importanza in Italia per quel che concerne il disegno del personaggio Disney.

Romano Scarpa è stato tra i più grandi sceneggiatori e disegnatori della scuola Disney italiana, innamorato delle strisce di Floyd Gottfredson da cui ha tratto ispirazione per le sue storie topesche fatte di viaggi, misteri, avventure. È stato tra gli autori che hanno dato vita a Topolino investigatore e ha regalato ai lettori delle storie di grande qualità. Ha creato anche nuovi personaggi, comprimari importanti come Atomino Bip Bip, che ha accompagnato Topolino in molte rocambolesche avventure, tra le più famose “Topolino e la dimensione Delta” del 1959. Romano Scarpa, come alcuni suoi colleghi, non ha avuto solo un rapporto professionale, ma intimo, personale con Topolino, che ha sempre sentito dentro di sé e per ha potuto raccontarlo carico di emozioni.

  • Il titolo del vostro libro è “Mickey Mouse. La vera storia del topo più famoso del mondo”. Ci sono alcune informazioni determinanti che ancora non sono conosciute dai più e che magari proprio il vostro testo ha messo in luce?

Ogni lettore e ogni spettatore ha conosciuto un tratto più o meno lungo della vita di Topolino, ignorando tutto ciò che c’era prima o dopo. L’intento del nostro libro è quello di far conoscere l’intera storia, che abbiamo raccontato non attingendo ad altre biografie che non esistono, ma ricostruendola attraverso la lettura dei fumetti e la visione dei corti: per questo i nostri occhi hanno visto cose che magari altri occhi non hanno colto. Poi abbiamo completato questo momento di narrazione emotiva con delle schede di approfondimento, frutto di un’attenta ricerca bibliografica.  

  • Un domanda che non ha strettamente a che fare con il testo ma con voi, personalmente, che vi occupate di biblioterapia: che cos’è e come si svolge il vostro lavoro in questo ambito?

Pratichiamo la biblioterapia da tantissimi anni utilizzando gli strumenti della bibliolettura interattiva e della narrazione emotiva. Costruiamo dei PerCorsi che non sono mai prefabbricati ma si adattano ai vissuti e alle esigenze dei soggetti con cui interagiamo: hanno lo scopo di generare benessere, di educare alle emozioni e, nelle scuole, di coltivare le intelligenze multiple dei bambini e dei ragazzi. Negli anni abbiamo creato un metodo innovativo ed efficace che sta dando degli ottimi risultati e che ci permette di esplorare sempre nuovi orizzonti.

 

Intervista a Roberto Gramiccia, autore del libro “La notte più buia” (Mimesis, 2022).

“La notte più buia” è l’ultima opera dell’eclettico dottor Roberto Gramiccia, che in questo saggio “atipico” racconta e soprattutto riflette sul suo vissuto personale, ma non solo, visto che tanti sono gli argomenti che passano sotto la lente di ingrandimento del suo pensiero (politica, medicina, arte, il periodo terribile della pandemia).  Tanti sono gli spunti di riflessione che il testo ci offre e l’autore ha risposto ad alcuni quesiti che sono scaturiti dalla lettura e che gli ho posto. Prima di lasciarvi all’intervista ringrazio il dottor Gramiccia per la sua disponibilità, ma anche per la profondità delle sue risposte e Ginevra Amadio per avermi inviato questo libro così interessante ed originale.

Dottor Gramiccia lei è medico, scrittore, critico d’arte, si è interessato molto anche alla politica: cosa lega questi ambiti professionali e passioni? C’è un punto di convergenza tra i suoi multiformi interessi?

“Sono un uomo e nulla di ciò che è umano mi è estraneo”, parole di Terenzio, in cui mi riconosco pienamente. Medicina, arte, letteratura, politica: si tratta di “province” della esperienza umana di importanza decisiva, direi connotante. Diciamo che l’umanità è come è per come si sono poste le grandi questioni relative al fare politica, al fare arte, al curare il corpo e la mente, al raccontare storie, al fare filosofia ecc. Il fatto che nella mia vita mi sia potuto occupare soprattutto di questi ambiti dimostra che ho avuto una considerevole fortuna, associata a una discreta dose di curiosità.

Parlando del libro, la narrazione si snoda continuamente tra l’io e il noi, in un passaggio molto naturale dalle sue vicende personali a quelle collettive. Quanto le due componenti possono essere scisse l’una dall’altra e quanto invece si compenetrano sia nel testo che nella sua esperienza di vita?

L’io e il noi sono due componenti dell’”intero” storico di cui mi occupo. La mia aspirazione è quella di raccontare una storia collettiva attraverso vicende personali. Raccontare la storia di tutti attraverso episodi della mia vita, rivisitati e corretti. Questo è il disegno di fondo, diciamo la strategia. È chiaro che quando gli episodi narrati mi coinvolgono particolarmente, allora l’io può momentaneamente prevalere. Viceversa, laddove prevale la lente “sociologica”, per esempio a proposito dei temi relativi alla pandemia, a prevalere è il noi. In un’altalena che spero interessi e soprattutto accompagni per mano il lettore, tenendolo sveglio e facendolo sorridere.

Questo testo è una sorta di saggio, ma secondo me anche a volte un memoir, scaturito dalla pandemia, come asserisce nella premessa: quel tempo sospeso le ha fatto sentito la necessità di rielaborare il passato, analizzando poi anche il nostro presente?

Proprio così. L’angoscia prodotta dalla paura del contagio ha funzionato da molla per recuperare istanze vitalistiche. E non c’è niente di meglio del serbatoio della memoria per evocarle ed alimentarle. Un caso particolare dentro una mia più vasta e complessa teoria della fragilità. Teoria che ho esposto diffusamente nel mio Elogio della fragilità, edito anch’esso da Mimesis.

Il libro parte con il racconto di un evento traumatico avvenuto nella sua infanzia, che riporto brevemente. I suoi genitori si erano recati urgentemente in ospedale con sua sorella, affidando lei ad una vicina di casa che però è tornata a dormire a casa sua; lei si è svegliato e si è trovato da solo nel letto, per cui ha cominciato a piangere, senza che nessuno, però, la sentisse. Il testo può essere un suo modo non solo per lasciare una traccia e quindi evitare di essere dimenticato e in qualche modo abbandonato, ma anche perché alcuni eventi storici non siano dimenticati?

Sul piano conscio, ho inteso raccontare una storia godibile e (spero) avvincente attraverso la quale narrare l’essenziale sul conto della mia generazione. Che su quello inconscio, come qualcuno mi ha fatto osservare, abbia voluto scrivere un testamento spirituale è possibile (non sono più giovanissimo, purtroppo). Ma io sono vagamente scaramantico e, ufficialmente, non sposo questa teoria.

Nell’introdurre il testo dice: “Attraverso i fatti voglio parlare delle idee. Perché le idee sono importanti come i fatti e ridiventano fatti in un ciclo perpetuo”. Mi ha colpito molto questa affermazione e mi piacerebbe che ne parlasse in modo più ampio. Ci sono delle idee in particolare che possono tornare e ridiventare fatti? Questo è sempre positivo o può avere delle implicazioni negative.

Prassi-teoria-prassi è l’approccio anti-idealistico di Marx che io ho fatto mio. In medicina, da sempre, questa catena conoscitiva e trasformativa della realtà è stata seguita, anche se non era filosoficamente cristallizzata. Partendo dalla pratica, una malattia, si osserva, si cerca di capirne i segni e le ragioni. Si trasforma in un quado nosografico teorico. Poi si ritorna alla prassi che si identifica con la cura. Ma anche la cura e la guarigione producono effetti teorici, destinati a influenzare la prassi. È un cerchio che si ripete all’infinito, che parte dalla prassi e ritorna sempre alla prassi, in cui i fatti diventano pensieri e i pensieri fatti. Non solo in medicina naturalmente.

L’idea della fragilità come forza propulsiva che emerge dalla lettura del suo saggio mi ha toccata molto e, anche in questo caso, desidererei che spiegasse in modo più approfondito la sua idea.

Preferisco che il mio libro venga considerato per quello che è: un romanzo a impronta autobiografica che aspira a essere un saggio narrato. Non un saggio tout court quindi. Nella narrazione che ho scelto di portare avanti, utilizzando l’ironia come strumento di intrattenimento ma anche di scavo della realtà, la fragilità è protagonista. Lo è, come sempre nella vita, perché la fragilità è una condizione ontologicamente connaturata con l’esperienza dell’esistere. La novità che credo di aver introdotto nella valutazione di questa condizione è l’idea che la consapevolezza di essa, la sperimentazione del suo peso è fondamentale per orientare le scelte dell’uomo in senso vitalistico, produttivo, creativo, rivoluzionario. La fragilità quindi come presupposto di una volontà rivolta nella direzione della liberazione del nostro potenziale vitale.

Mi pare che “La notte più buia” sia un testo nostalgico, ma non del tutto pessimista e che l’ironia stemperi un po’ l’amarezza che viene fuori dalla contemplazione del presente: conferma questa mia idea?

Il pessimismo è gramscianamente quello dell’intelligenza che non può non misurare la crisi in cui ci dibattiamo, di cui la pandemia, durante la quale questo libro è stato scritto, è stata la cartina di tornasole più fedele e clamorosa. Ma il pessimismo non sfocia mai nella disperazione. Casomai è utile a non farsi illusioni, a non rifugiarsi in una inutile e fiduciosa speranza passiva. Per coltivare casomai sogni di liberazione e di riscatto. Orizzonti entro i quali la forza scatenata da una fragilità consapevole e ribelle apre la strada a un futuro migliore sul piano individuale e collettivo. L’ironia, gli amori, le lacrime ma anche le risate, le vittorie e le sconfitte, gli errori e i successi, l’eros e l’angoscia della morte sono tutti gli ingredienti di una storia che dal passato vuole trarre non solo la forza ma anche l’idea della direzione da seguire.

Nell’opera ha fornito un ritratto, a tutto campo, della sua generazione: cosa vorrebbe che di quella generazione rimanesse ai più giovani?

L’idea che il mondo si può cambiare, che i giochi non sono mai fatti una volta per tutte. E anche che a volte (non spessissimo) vivere è piacevole e divertente.

“I cannoli di Marites” di Catena Fiorello Galeano (Giunti, 2022)

Lassati stari, non durmiti chiùi,

ccà ‘mmenzu a iddi dintra a ‘sta vanedda

ci sugnu puru iù ch’aspettu a vui

pri vidiri ‘ssa facci accussi bedda

passu ccà fora tutti li nuttati

e aspettu puru quannu v’affacciati

E fu così, sulle note dolcemente struggenti di questa canzone, che scoprimmo la voce intonatissima e armoniosa di Catena Fiorello Galeano, in una bellissima serata estiva, a Senise (PZ), ad un evento organizzato dal Rotary Club Sinnia, con la collaborazione dell’Avis e del Comune.

In realtà non è stata l’unica interessante scoperta di quella sera, durante la presentazione dell’ultima fatica letteraria dell’autrice, “I cannoli di Marites”: la sua umanità e la sua simpatia sono state, onestamente, inaspettate, per chi, come me, non la conosceva in modo approfondito. La scrittrice è riuscita ad incuriosire e ad affascinare chi l’ascoltava con una semplicità incredibile, grazie ad una capacità di comunicazione eccezionale, senza risultare pedante e senza affettazione.

Mentre firmava le copie dell’opera ha dedicato del tempo ad ognuno dei lettori presenti nonché all’adorabile cagnolino Balù e a noi di “Un libro e un caffè”, interloquendo come se fosse una conoscente di lunga data. Consiglio a tutti, assolutamente, di presenziare ad un incontro con la scrittrice siciliana, perché di sicuro saranno delle ore piacevolissime.

Dopo questo doveroso preambolo, però, vorrei parlare nel dettaglio del libro, che è il secondo capitolo della serie dedicata alle mitiche cinque signore di Monte Pepe (il primo si intitola “Cinque donne e un arancino”), donne meravigliose che hanno aperto una rosticceria in questo delizioso borgo in Sicilia, riuscendo a renderla famosa in tutto il mondo. Il notevole successo dell’attività spinge le signore a cercare un aiuto, per cui assumono Marites, una giovane cuoca che proviene dalle Filippine e che si rivela abilissima nella preparazione delle leccornie locali.

Rosa e la sua tenacia, Nunziatina e la sua ricerca della poesia in ogni momento della giornata perché i versi consolano e liberano le emozioni, Maria e la sua timidezza, Sarina e la sua inquietudine, Giuseppa e la sua sagacia ma anche la sua volontà di apprendere, Marites e la sua forza di volontà: tutte le componenti di questo gineceo, alle prese con le loro personali battaglie, i loro amori, i moti del loro animo, le loro debolezze, il loro coraggio, non possono non entrare nel cuore di chi fa la loro conoscenza.

Personalmente, devo confessarlo, sono stata letteralmente folgorata da Nunziatina: abbiamo disperatamente bisogno di poesia in questo mondo che purtroppo spesso ci mostra solo il suo lato peggiore e che non invoglia a cercare la meraviglia nelle cose più comuni; così come tutti i posti in cui viviamo, piccoli o grandi che siano, dovrebbero diventare “Borghi della Poesia e dell’Incanto”.

Essendo una storia prevalentemente al femminile, si è toccato, approfondendo il testo, un tema importantissimo, quello del femminismo e in particolare si è detto che il femminismo di sostanza spesso si “scontra” con il femminismo di concetto, che a volte fa perdere vigore a tutte le battaglie delle donne; è stata affrontata, poi, anche la tematica dell’integrazione.

Quello raccontato in questo volume è, senza dubbio, un femminismo di sostanza, perché la solidarietà tra donne, la forza di prendere decisioni scomode e di sostenerle, sono l’esempio perfetto di come si possa essere concretamente femministi, e quella che emerge dal libro è una reale integrazione, quella senza riserve che porta al rispetto totale, non alla semplice accettazione dell’altro.

Ci si sente a casa a Monte Pepe, in un microcosmo fatto di valori veri, di sentimenti veri, di sapori veri (non è un caso che i piatti tipici, i paesaggi della terra d’origine siano raccontati con dovizia di particolari), così come il linguaggio è assolutamente autentico, semplice, ma non piatto, raffinato al punto giusto e con alcune deliziose incursioni del dialetto.

Ci si sente a casa nel romanzo di Catena Fiorello Galeano, così come, si respirava un’atmosfera familiare mentre lei dialogava con il pubblico. È raro che i libri siano lo specchio fedele di chi li ha concepiti, ma mai come in questo caso posso testimoniare che scritto e autore sono assolutamente un tutt’uno. Niente trucchi, niente inganni, solo verità e una narrazione adatta a tutti e che può arrivare a tutti. Credo che non ci sia nulla di più bello!

Vorrei tanto qualche spoiler sulle prossime avventure che attendono le nostre signore, ma per quello, lo so già, dovrò attendere. Sarà però, senz’altro, un altro viaggio fantastico.

Postilla con le domande che avrei voluto rivolgere a Catena Fiorello Galeano:

  • Tra le protagoniste, qual è quella in cui Lei si rispecchia di più?
  • Ha tratto ispirazione da qualche donna di sua conoscenza in particolare?
  • Come si riesce a mantenere l’equilibrio fra semplicità e raffinatezza?
  • Ha detto che le piacerebbe fare un giro per i paesi i più piccoli della Basilicata e diventare una “cantastorie”. C’è un retaggio derivante dalla narrazione orale nel suo romanzo?
  • Nel testo viene, ovviamente, raccontata la Sicilia in tutta la sua bellezza, però ho anche l’impressione che Monte Pepe diventa quasi un archetipico: è un’impressione corretta?

Una giornata da lettori imprescrittibili!

Cosa c’è di più vitale (e più bello) di una ventina di ragazzi appassionati ed entusiasti che parlano di libri e presentano un’opera che ha li ha particolarmente appassionati?

In una bella giornata di maggio, a conclusione di un anno scolastico complesso e faticoso, i giovani lettori della prima A dell’IC “Settembrini” di Nova Siri, seguiti dalle professoresse Salvaggio, Santagata e Orlando e alla presenza della sottoscritta, intrusa d’eccezione, hanno preparato dei magnifici one pager, riassuntivi del testo da loro scelto per pori esporli nella loro “dissertazione”. Ogni alunno ha brillantemente enunciato i motivi per cui ha amato il libro scelto, ne ha spiegato la trama e tratteggiato i personaggi principali. Sono emerse così le differenze, le unicità di ciascuno di loro e tanti bei suggerimenti per le prossime letture.

Il book talk è stato il coronamento di un anno di piacevolissima navigazione nel mare di storie meravigliose, seguendo la rotta della passione e della fantasia. In effetti meravigliosa è stata anche la splendida esperienza di giurati del Premio Campiello junior, di alcuni alunni della scuola, come tante altre iniziative, anche condivise con le altre classi, messe in campo per mostrare, con l’esempio e mai con l’imposizione, che leggere fa bene, nutre la mente, fa vivere vite che non sono la nostra ed entrare in contatto con emozioni che magari non pensiamo neanche di potere provare.

È stata una gioia vedere che con tanta cura è stato pianto il seme dell’amore per la narrativa, un seme che ha attecchito in menti giovani, curiose e desiderose di apprendere: il terreno migliore per crescere in modo sano.

Viva la lettura, viva gli insegnanti (e la scuola) che la promuovono e viva i nostri magnifici lettori imprescrittibili che spero non perdano mai la voglia di perdersi e ritrovarsi per le strade sconfinate tracciate dall’inchiostro e dall’inventiva.

Tra musica e parole: cronistoria di un colpo di fulmine musicale e letterario.

“Ci sono giorni in cui le incertezze le sento sotto pelle. Ci sono giorni in cui mi sento schiacciato dalle insicurezze di questo maledetto periodo. A volte mi sento l’unico, ma so che non è così. Chissà come sarà il futuro, chissà come saremo diventati quando questa pandemia sarà andata via. Chissà…

Io aspetto e intanto scrivo. Parole, musica, paura, piccole felicità. Scrivo di me, scrivo di noi…”

Questo post di Ermal Meta, insieme ad un tweet in cui si chiedeva quale sua frase ritenessimo più poetica, ha “causato” la nascita del mio articolo. I termini “scrivo” e “parole” messi vicini mi hanno non solo fatto pensare al fatto che attendo con impazienza il suo libro veda la luce (ho da sempre pensato che le canzoni fossero troppo brevi per contenere tutto il mondo espressivo del cantautore e che la sua abilità narrativa vada al di là dei pochi minuti di un pezzo musicale), ma anche al passato e al fatto che, proprio lo straordinario modo di comporre versi e di creare immagini, mi abbia fatto “innamorare” dell’arte di Ermal. In effetti prima di rimanere incantata da Vietato morire e dalla magistrale interpretazione di Amara terra mia, che mi ha commossa profondamente, ero rimasta folgorata da un verso di “Odio le favole”: “il futuro era bellissimo per noi”. Un verbo al passato accostato, per mezzo di un geniale ossimoro, al sostantivo “futuro”; due parole, una perfetta sintesi che esprime speranza, ma anche rimpianto per qualcosa di incompiuto, che mi provoca un’emozione intensissima ad ogni ascolto. Adoro di questo pezzo anche l’ispirazione a Karen Blixen nella frase, di sudore di lacrime o mare, ci sembrava la cura di tutto il sale. Di grande impatto è poi l’immagine di quella sposa “dietro al suo velo”, di un viso che si nasconde in attesa della promessa di un avvenire felice. Il verso “cuore che si stringe non tradisce mai” è semplicemente da pelle d’oca per la sua intensità e la sua verità.

Ancor prima però di “Odio le favole”, però, ricordo che spesso, casualmente (ancora non seguivo Ermal assiduamente), su Radio Italia ascoltavo “Gravita con me”, che ad un certo punto recita: “Il tuo viso è di un bello isterico”. Anche qui due parole, per raccontare il raggiungimento di una singolare armonia, per rappresentare qualcosa di spigoloso che al tempo stesso risulta attraente: una descrizione limpida, netta ed efficacissima. Che dire poi di “c’è un vento gelido, atletico”! Un elemento immateriale rappresentato col gesto preciso e scattante di uno sportivo, estremamente concreto. Ogni volta che il pezzo passava, pensavo che chi lo avesse scritto fosse davvero, davvero bravo. E non avevo ancora ascoltato praticamente nulla.

Arriviamo al 2017. Guardo come tutti gli anni Sanremo e ad occhi chiusi ascolto “Vietato morire”. Ermal canta questo verso: “E la paura frantumava i pensieri che alle ossa ci pensavano gli altri”.

In quel momento, con orecchie ed anima in ascolto, ho sentito un pugno nello stomaco, un intenso coinvolgimento emotivo che poi mi avrebbe portata a seguirlo. Quelli che ho citato sono versi crudi, che diventano quasi onomatopea o metonimia e fanno sì che chi ascolta si immedesimi nella storia che la canzone racconta, visualizzandola e sentendola. La durezza poi si addolcisce col ritornello, che è apertura alla speranza e al coraggio di cambiare le cose. Non si poteva non amare profondamente questa canzone.

In “Bionda” il cantante dice: le mie mani e le tue mani sono leggerezza”: l’uso del sostantivo al posto dell’aggettivo cambia completamente il verso rendendolo efficace.

Un altro verso per me è particolarmente poetico, poi, ed è contenuto nel brano “Voodoo love”. Ermal scrive: “Ma tu c’eri sempre, seppellita nel mio domani come fossi un seme”. L’immagine del seme che piano piano dà vita a qualcosa, che si cela nel terreno per poi crescere con vigore, l’idea di trovare nell’avvenire ciò che in passato si cercava e che si è svelato però con lentezza è semplicemente un’immagine originalissima e anche intensissima dell’amore. Anche qui inoltra, c’è una sorta di citazione letteraria. Non si può no pensare a Shakespeare e a “Sogno di una notte di mezza estate, ascoltando “ ma l’amore non usa gli occhi”.

“Schegge” è una delle canzoni più introspettive di Ermal, nata dopo un incubo e dedicata alla musica. All’ascolto mi ha colpito molto la scelta di descrivere i pensieri come uno stagno. Anche in questo caso l’immagine lascia spiazzati perché uno stagno è uno spazio piccolo, quasi angusto, mentre i pensieri dovrebbero essere in un luogo ampio, che lascia libertà. A volte però in effetti i pensieri possono essere imprigionati e in attesa che qualcosa li lasci andare via, in questo caso la musica. Arrivare al concetto in modo non scontato è proprio quello che rende tanto pregevole il testo di questo brano (in genera dei brani di Ermal).

“Se ci fosse anche per una carezza per ogni mio errore”. Chi non ha sensi di colpa, chi non ha bisogno di perdonarsi e di essere perdonato, chi non ha bisogno di un gesto di tenerezza. Non può lasciare indifferenti, dunque,  una frase come quella presente in “Quello che ci resta”. “Il destino universale” è secondo me una piccola raccolta di racconti, con vari personaggi e vari punti di vista (come ho già detto nella mia recensione di “Tribù urbana”). Nel cuore mi è rimasta Marta, delicato e forte fiore tra le pietre, personaggio delineato in pochissime, struggenti e vivide battute. Potremmo anche dire che Ermal utilizzi il flusso di coscienza come tecnica narrativa, come in “Stelle cadenti” o anche in “Bob Marley”, ad esempio.

Potrei continuare ancora, ma termino con la canzone di Emal che amo di più e ha un titolo con un riferimento linguistico, si può dire: “Voce del verbo”. Dall’infinito di un verbo possono prendere simbolicamente vita i nostri pensieri e le nostre azioni, dall’abisso di un qualsiasi dolore si può arrivare a guardare le cose col giusto distacco e ritrovare la speranza.

“Camminare senza fretta, fare soltanto quello che spaventa, lasciarsi vivere perché è bellezza”.

Questa strofa del brano dimostra che le parole hanno un potere infinito, se utilizzata bene. Possono far male, possono dare coraggio, possono toccare l’intimo di ognuno di noi, possono mostrare angolature inedite del mondo ed Ermal è capace di questo con la sua scrittura, non solo nelle canzoni, ma anche nei due racconti che ha condiviso col pubblico e che ho adorato.

Non so in realtà, perché, ancora una volta abbia sentito l’esigenza di esternare i miei pensieri visto che ho sempre abbondantemente commentato ciò che Ermal scrive. Forse l’ho fatto perché dopo il post ho ritenuto che il fatto di sapere quanto il proprio talento sia apprezzato potesse essere confortante (lo so è un po’ troppo ambizioso come obiettivo), forse perché vivo di sensazioni, di idee e a volte sento la necessità di non tenere tutto dentro. Non so essere precisa, però spero che questo mio breve scritto possa piacere e possa essere piacevole da leggere e magari essere ben accolto da chi come me, ammira l’abilità letteraria del cantautore.

 

Buon compleanno “Un libro e un caffè blog”!

Oggi vi offro virtualmente un caffè speciale, perché è una giornata speciale. Esattamente quattro anni fa feci una pazzia: creare questo blog. Grazie a Biagio per il supporto tecnico. Grazie a chi era con me all’inizio, Cecilia (‘sta casa ascpett’a te quando vuoi). Grazie al mio insostituibile braccio destro, Valentina: senza le sue foto, i suoi consigli e il suo sostegno questo blog non sarebbe lo stesso. Grazie a chi legge le mie recensioni: condividere la mia passione con chi ama i libri è un privilegio. A prestissimo (prima di quanto immaginiate) con i nuovi articoli, Giuliana.

Buone feste a tutti!

Ci siamo, è la Vigilia di Natale. Anche io e Valentina volevamo augurarvi buone feste. Che sotto l’albero possiate trovare tutto quello che c’è in questa foto dalle atmosfere dickensiane: il calore che riscalda il cuore e ravviva, la luce della gioia e della speranza e tanti nuovi capitoli da scorrere pagina dopo pagina.

Sereno Natale e Felice Anno Nuovo da parte di Un libro e un caffè!

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