Un libro e un caffè

"Leggere è sognare per mano altrui". Fernando Pessoa, Il libro dell'inquietudine.

“Ritratti veri di persone immaginarie” di G.Camuffo e R. Di Renzo (Helvetia editrice, 2021)

Siamo fatti di storie, gioie, dolori, pregi, idiosincrasie; siamo fatti di un involucro esterno, che a volte non riflette quello che abbiamo dentro e di un’interiorità ricca, a volte misteriosa. Proprio sul contrasto tra immaginazione e tra quello che pensiamo e quello che è davvero, si basa l’opera Ritratti veri di persone immaginarie”. Gli autori “giocano” a costruire la storia, ipotetica, di alcune persone, sempre ipoteticamente viste per caso.

Il risultato è una galleria di ritratti ricchi di umanità, costruiti sui chiaroscuri che sono parte costituiva dell’uomo. Incontriamo così Aurelio che ha gli occhi stanchi e ora si prende cura della donna che ama, Bice col suo velo di tristezza negli occhi, l’umore malinconico e un errore di cui deve pagare lo scotto o Amali, la “figlia strana del vicino” che ognuno di noi può aver incontrato.

Dissacranti e delicate al tempo stesso, piene di una pirandelliana ironia, le descrizioni dei personaggi concise e brevi, raggiungono tutte l’intento di fare riflettere e in alcuni casi di emozionare.

Il testo di Giorgio Camuffo e Renzo Di Renzo mi pare attualissimo, visto che viviamo in una società ormai attentissima all’immagine, in cui sempre di più si pone la questione di mostrare o meno l’autenticità e la fragilità e in cui, attraverso l’utilizzo dei social, si tende sempre più a costruire un modo parallelo che non sempre corrisponde al vero. LA costruzione della propria immagine è vista come una corazza, ma serve davvero?

L’opera mi ha fatto poi riflettere su quanto sia importante non fermarsi in superficie quando nei rapporti con gli altri e su quanto a volte le prime impressioni che ci facciamo o gli altri si fanno siano ingannevoli.

Questo libro è sicuramente un bell’esercizio di immaginazione, che come sempre, aiuta a guardare più a fondo e più lontano e un ottimo pretesto per indurci ad osservare il mondo con occhi più profondi.

“Due città” di J.Á. González Sainz (Helvetia editrice, 2022)

“Ci sono spazi nascosti in una città, vita nascoste e vacuità nascoste, e finestre più buie dove le ombre delle persone passano fugacemente fuori dalla nostra vista”.

(Kate Milford)

 

“Due città” è il titolo del volume che raccoglie due racconti di J.A. Gonzalez Sainz, incluso nella colla Taccuini d’autore.  Nel primo testo, “Una leggere differenza di espressione”, è Trieste a fare da sfondo al racconto, che ruota intorno alla sparizione improvvisa e inaspettata di un uomo; il secondo racconto, “L’altra strada”, il secondo racconto, è ambientato a Venezia e al centro della storia ci sono le riflessioni di un uomo, indeciso se seguire la strada che percorre abitualmente oppure deviare e soddisfare la curiosità di provare un percorso diverso.

Ad essere rappresentate nelle pagine dell’opera sono incognite, vite che si incontrano e si perdono lungo le strade di due luoghi diversi, ma entrambi simbolo del dubbio e delle possibilità che forse non arriveranno mai o non saranno mai colte. Lo spazio fisico si dilata attraverso le parole e le pagine, diventando metafora e pretesto per addentrarsi nelle strade altrettanto vere della vita di ognuno e dei suoi possibili bivi.

Lo stile dell’autore elegantissimo e volutamente elusivo, ellittico in alcuni momenti da al lettore la possibilità di trarre le proprie conclusioni e pare perfetto per esprimere il senso di precarietà, di insicurezza proprio non solo dei luoghi, ma anche dell’esistenza umana.

La lettura di “Due città” è davvero un viaggio nel quale le pause e il percorso sono più importanti della destinazione, o per meglio dire delle risposte che il lettore forse vorrebbe. Il finale degli scritti è aperto, gli interrogativi sono sicuramente molti e le certezze poche, ma è  questo a  rendere unico e intrigante il libro che vi ho presentato.

“Cuore di serpente” di Giovanni Montini (Bertoni Editore, 2022)

Giulio Martinelli, uno scrittore quarantenne alla ricerca dell’inspirazione per il suo prossimo libro e in crisi esistenziale, accetta la proposta della sua amica Francesca e trascorre alcuni giorni di vacanza nella sua villa. L’arrivo del giovanissimo figlio acquisito di Francesca sconvolgerà la vita di Giulio che si innamorerà perdutamente di lui, portandolo a rivedere tutte le sue convinzioni e priorità. Il ragazzo, inoltre, farà riemergere vecchi dolori, dissapori e segreti inconfessabili, dando il via ad una spirale di eventi che renderanno quella torrida estate del 1977 un punto di svolta nell’esistenza dei personaggi. Dopo quel soggiorno al Circeo, niente sarà più lo stesso. In questa sorta di bolla artificiale e artificiosa creatasi intorno a Giulio, Andrea, Francesca, Nicoletta e Gabriele, si sente il riverbero degli accadimenti sociali e politici verificatisi in Italia in quel periodo, in una fusione ideale tra “pubblico” e privato che è, oltra all’azione, un altro elemento costituivo importantissimo del testo.

“Cuore di serpente” è un romanzo intenso, che si regge su un ben riuscito e intricato gioco psicologico intessuto a partire dalle fragilità, dalle pulsioni e/o intenzioni nascoste dei protagonisti, dal loro lato più oscuro.

Ognuno di loro nasconde qualcosa, ognuno di loro è insoddisfatto e fa trasparire solo quello che decide di far vedere, ognuno di loro, forse, ha un cuore di serpente.

L’atmosfera tesa da vero e proprio thriller, traboccante di sensualità, che definirei quasi decadente, fa sì che l’opera di Montini non lasci di sicuro indifferente il lettore con un suo stile bene definito.

La scrittura è curata, precisa ed è molto riconoscibile il suo taglio cinematografico, ben evidenziato dalle descrizioni dettagliate, ma anche in quella che mi è parsa, in alcuni momenti, una suddivisione dei blocchi narrativi in scene. Montini, infatti, si è dichiaratamente ispirato al film “La piscina” con Alain Delon e Romy Schneider.

Interni ed esterni ben ripartiti, visione d’insieme e focalizzazione sull’intimità dei soggetti presi in considerazione: tutto questo riesce a dare al testo una composizione omogenea e ben pensata. Ovviamente i colpi di scena non mancano.

Se amate le letture ricche di pathos e che permettono di scandagliare gli abissi dell’animo umano “Cuore di serpento” è il libro perfetto per voi.

“Formulario per la presenza” di Francesca Innocenzi (Progetto cultura, 2022)

“Il tempo trascorso è come una foto dove non sai se guardare o morire ovunque tentato trapassa il morire nel vaso debitamente deposto non dire dove dilegua lo sguardo fattosi scatto del muto sparire”

 

Questi versi sono perfetti per cominciare a descrivere la raccolta di poesie “Formulario per la presenza” di Francesca Innocenzi. I componimenti contenuti nel testo sono, in effetti, come degli scatti che mostrano in modo più nitido, i ricordi e le emozioni dell’autrice.

La Innocenzi utilizza la forma poetica, a mio avviso, per tracciare un sentiero, per ritrovare la strada di casa, ritrovare se stessa, o meglio, per affermare il suo essere presente a se stessa e al mondo.

Una profonda emozionalità caratterizza le liriche che offrono al lettore una visuale privilegiata sull’anima e sulle riflessioni più intime della Innocenzi.

“Il tempo anelato istante eterno è caduto come miele sul selciato il tempo, profumo di pruneto rifugio e scampo al tuo corpo voluto la ferrea leggerezza che in te ho accarezzato stasera serbo scherzo di brezza su salice muto”

Evocando in modo tangibile, tramite un sapore, un odore, ma anche il dolore, ferita da curare, o momenti importanti, apparentemente insignificanti ma di enorme valore, la scrittrice ci conduce in una sorta di ricerca del tempo perduto.

Questo “Formulario”, nel quale, in realtà, non esistono schemi prestabiliti, formule o ricette preconfezionate, è un viaggio che invita tutti, a interrogarsi sul breve lasso di tempo che è concesso ad ognuno, a dare valore ad ogni esperienza o istante vissuto, ad ogni sentimento vissuto.

Al di là del senso di malinconica nostalgia che pervade il testo, l’anelito di evoluzione personale che vi si respira fornisce una chiave di lettura ottimistica e positiva di quest’opera, adatta a chi ama l’introspezione e non ha paura di guardarsi dentro, trovandosi al cospetto di versi così ricchi di pathos.

“Non ospiti porte né muri ma argini buoni e letti di pace ed inconquistate altezze da scalare. qui non chiedere parola ma rimani in qualunque tempo e forma tu sia”

Intervista a Dario Amadei ed Elena Sbaraglia, autori di “Mickey Mouse. La vera storia del Topo più famoso del mondo”.

Amate da sempre il mondo di Walt Disney e in particolare amate Topolino, una delle sue creazioni più celebri? Non potete, allora, non leggere “Mickey Mouse. La vera storia del topo più famoso del mondo”, il saggio di Dario Amadei ed Elena Sbaraglia, che ripercorre con un’accuratezza e una dovizia di dettagli davvero impressionanti, la nascita e il cambiamento di uno dei cartoni/ fumetti più famosi di tutti i tempi. Lascio la parola agli autori, che hanno gentilmente risposto alle mie domande e che racconteranno in modo più approfondito il loro scritto che ho letto davvero con enorme piacere.

Post scriptum con aneddoto: proprio nel momento in cui ho ricevuto la richiesta di leggere “Mickey Mouse”. La vera stori” sono usciti degli articoli che parlavano dell’uscita di alcuni numeri speciali di Topolino ambientati nella mia Basilicata. Se non è stato un segno del destino questo…

 

  • La prima domanda che vorrei porvi è questa: perché un libro su Topolino? Cosa vi ha incuriosito a tal punto da dedicargli un’opera così dettagliata, ed esaustiva?

Siamo sempre stati affascinati da Topolino e soprattutto dalla sua lunga storia quasi centenaria. Negli anni abbiamo raccolto tantissimo materiale che utilizziamo molto nei nostri laboratori scolastici e a un certo punto ci siamo resi conto che con tutte quelle informazioni sarebbe stato un peccato non fare un libro. Non un libro qualunque, ma la biografia romanzata del Topo più famoso del mondo, che incredibilmente non era ancora mai stata scritta. Così, grazie anche alla Graphofeel edizioni che ha appoggiato con entusiasmo il nostro progetto, è nato il libro “Mickey Mouse la vera storia del topo più famoso del mondo”.

  • In cosa differisce il Topolino dei fumetti dal Topolino dei corti animati?

Topolino è nato nel 1928 come protagonista di corti cinematografici ed era un personaggio scanzonato che ballava, cantava, faceva dispetti e soprattutto corteggiava, con alterna fortuna, Minni di cui è stato sempre innamorato. Nei fumetti di Floyd Gottfredson e poi dei suoi eredi, soprattutto della grande scuola italiana, il personaggio di Topolino ha avuto un’evoluzione diversa, diventando l’eroe di missioni impossibili e con il tempo un investigatore capace di risolvere i casi più intricati. Questo cambiamento, però, lo ha trasformato in un personaggio molto affidabile ma un po’ troppo serio e compassato e quindi non più adatto alle gag che sono un ingrediente indispensabile nei corti animati. Dalla metà degli anni ’50 è apparso solo nei fumetti, ma nelle serie televisive di questo millennio è tornato come protagonista anche dei corti con un restyling molto innovativo che però strizza l’occhio ai cartoni animati delle origini.

  • Una delle cose che mi ha colpito di più leggendola vostra opera è il rapporto di “Topolino” con il Cinema. Mi piacerebbe che questo argomento davvero interessante fosse da voi ulteriormente approfondito.

Walt Disney era molto affascinato dal cinema ed è stato un grande innovatore, un pioniere dei corti animati che ha reso sonori: tutti quelli che sono venuti dopo inevitabilmente si sono ispirati a lui. Ha creato tantissimi personaggi, ma era legato moltissimo a Topolino, che era la sua star indiscussa e tutti gli altri, senza di lui, non sarebbero mai esistiti. Chaplin era un grande ammiratore di Mickey Mouse e voleva che i suoi film fossero preceduti dalla proiezione di un corto di quel piccolo topo di cui anche Hollywood ha riconosciuto la grandezza, tanto è vero che gli è stata dedicata una stella sulla Walk of Fame e Disney, nel 1932, ha vinto un oscar onorario per la sua creazione. Una delle più famose interpretazioni cinematografiche di Topolino è quella dell’Apprendista stregone nel film Fantasia: alla fine della sua esibizione va a congratularsi con il direttore d’orchestra Stokowski e questo non è certo tipico di un disegno animato ma di una star del cinema a tutti gli effetti.

  • Leggendo l’opera si evince che Topolino è un personaggio estremamente “malleabile” che cambia col passare del tempo, che può adeguarsi alle mode pur rimanendo sostanzialmente se stesso o essere utilizzato per trattare tematiche particolari. Cosa è rimasto oggi del Topolino di un tempo e come potrebbe eventualmente cambiare in futuro?

Topolino è un highlinder, un immortale che ha attraversato le vicende di un secolo di storia descrivendole e prendendo posizione senza tirarsi mai indietro. È rimasto sempre uguale a se stesso adattandosi però ai cambiamenti ambientali, sociali e culturali senza mai soffrire, perché ha in sé un registro smisurato di interpretazioni. Noi vediamo nelle scuole che i bambini di oggi ancora conoscono le sue storie e lo amano come lo amavano i loro genitori, i loro nonni e anche i genitori dei loro nonni. Se ci si ferma un attimo a riflettere su ciò ci si rende conto della grandezza di questo personaggio. Cosa è rimasto del Topolino di un tempo? La risposta è semplice, è rimasto tutto perché tutto quello che ha fatto fa parte del suo DNA e ci sono dei geni dormienti pronti però a esprimersi nuovamente quando la situazione dovesse richiederlo e disponibili nello stesso tempo ad arricchirsi con nuove informazioni suggerite dai cambiamenti. Per questo Topolino continua ancora a piacere dopo cento anni, perché ognuno può in qualunque epoca riconoscersi in lui.

  • Mi piacerebbe che parlaste al pubblico di Romano Scarpa, figura che, in tutta onestà, non conoscevo e che ha rivestito grande importanza in Italia per quel che concerne il disegno del personaggio Disney.

Romano Scarpa è stato tra i più grandi sceneggiatori e disegnatori della scuola Disney italiana, innamorato delle strisce di Floyd Gottfredson da cui ha tratto ispirazione per le sue storie topesche fatte di viaggi, misteri, avventure. È stato tra gli autori che hanno dato vita a Topolino investigatore e ha regalato ai lettori delle storie di grande qualità. Ha creato anche nuovi personaggi, comprimari importanti come Atomino Bip Bip, che ha accompagnato Topolino in molte rocambolesche avventure, tra le più famose “Topolino e la dimensione Delta” del 1959. Romano Scarpa, come alcuni suoi colleghi, non ha avuto solo un rapporto professionale, ma intimo, personale con Topolino, che ha sempre sentito dentro di sé e per ha potuto raccontarlo carico di emozioni.

  • Il titolo del vostro libro è “Mickey Mouse. La vera storia del topo più famoso del mondo”. Ci sono alcune informazioni determinanti che ancora non sono conosciute dai più e che magari proprio il vostro testo ha messo in luce?

Ogni lettore e ogni spettatore ha conosciuto un tratto più o meno lungo della vita di Topolino, ignorando tutto ciò che c’era prima o dopo. L’intento del nostro libro è quello di far conoscere l’intera storia, che abbiamo raccontato non attingendo ad altre biografie che non esistono, ma ricostruendola attraverso la lettura dei fumetti e la visione dei corti: per questo i nostri occhi hanno visto cose che magari altri occhi non hanno colto. Poi abbiamo completato questo momento di narrazione emotiva con delle schede di approfondimento, frutto di un’attenta ricerca bibliografica.  

  • Un domanda che non ha strettamente a che fare con il testo ma con voi, personalmente, che vi occupate di biblioterapia: che cos’è e come si svolge il vostro lavoro in questo ambito?

Pratichiamo la biblioterapia da tantissimi anni utilizzando gli strumenti della bibliolettura interattiva e della narrazione emotiva. Costruiamo dei PerCorsi che non sono mai prefabbricati ma si adattano ai vissuti e alle esigenze dei soggetti con cui interagiamo: hanno lo scopo di generare benessere, di educare alle emozioni e, nelle scuole, di coltivare le intelligenze multiple dei bambini e dei ragazzi. Negli anni abbiamo creato un metodo innovativo ed efficace che sta dando degli ottimi risultati e che ci permette di esplorare sempre nuovi orizzonti.

 

I mille colori dei libri al Festival delle Letterature di Policoro.

Policoro dal 29 al 31 ottobre si è colorata di giallo (ma non solo), per il FeLP, il Festival delle Letterature, organizzato dal Presidio del libro Magna Grecia. Il professor Francesco Roseto, presidente del Presidio e i suoi collaboratori, in particolare Margherita Rasulo, Angela Delia e Maria Lovito, hanno dato vita ad una manifestazione ricca di scrittori interessanti, di tematiche pregnanti e di autentico amore per i libri.

L’inizio e la fine delle presentazioni e dei dialoghi con gli scrittori sono stati scanditi dalla stesura del “Novel in progress” (fiore all’occhiello del FeLP a mio parere), ossia la composizione di un racconto in presa diretta e dalla sua lettura. L’arduo e affascinante compito è toccato a Piera Carlomagno che con il suo testo, originalissimo e ricco di pathos, ha fatto emozionare tutti i presenti. Tantissimi, come ho detto gli autori presenti per offrire al pubblico le loro opere, ma anche editori e editor: Armando D’Amaro Nathan Marchetti, Schembri, Antonello Marchitelli, Raffaele Marra, Palo Pinna Parpaglia, Rosa Teruzzi, Aurelio Pace, Daniele Cellamare, Claudia Saba, Patrizio Nassirio e ancor Sara Pollice, Nora Venturini, Mirko Addessa, Francesco Serafino, Giuseppe Petrarca, Letizia Vicedomini Adriano Di Gregorio, Livio Frittella, Paolo Mirti e Mariolina Venezia.

Nei giorni del FeLP abbiamo viaggiato tra stili diversi, generi diversi (dal giallo vintage ai gialli territoriali, con incursioni nel romanzo storico), abbiamo visitato metaforicamente le città più svariate (Roma, Genova, Napoli, Venezia, Campobasso e ovviamente Matera e la sua provincia), abbiamo conosciuto le personalità più disparate e trattato argomenti fortissimi e attualissimi come la violenza di genere o le problematiche degli adolescenti, cosa che mi ha particolarmente toccata visto che tutti i giorni sono a contatto con i miei giovanissimi alunni.

Molto importante è stato il coinvolgimento delle scuole sia in orario curriculare che durante le presentazioni: solo rendendo partecipi i ragazzi si può inculcare in loro l’amore per la lettura.

Tanti sono i personaggi nuovi (moltissimi volti femminili, tra l’altro) che ho scoperto: il commissario Costanza Petrini nato dalla penna di Sara Pollice, oppure la “tassinara”, aspirante ispettrice, Debora Camilli alla quale ha dato vita Nora Venturini. Ho ritrovato, invece, Libera, la fioraia milanese con la passione per le indagini o la mitica Imma Tataranni, raccontata però da una prospettiva diversa.

È stato, inoltre, estremamente istruttivo e commovente, rievocare la storia di Gino Bartali e dell’aiuto che ha dato a tanti ebrei.

Purtroppo nel limitato spazio di un articolo non riesco a dare il giusto risalto a tutto quello che è stato detto e vissuto al Festival, sicuramente però posso, intanto invitarvi a visitare la pagina del Presidio del Libro Magna Grecia per visualizzare video, interviste e contenuti e poi fare un plauso a chi ho organizzato questo evento che mostra come anche nei nostri piccoli borghi possano trovare spazio momenti di elevato spessore culturale.

 

Intervista a Roberto Gramiccia, autore del libro “La notte più buia” (Mimesis, 2022).

“La notte più buia” è l’ultima opera dell’eclettico dottor Roberto Gramiccia, che in questo saggio “atipico” racconta e soprattutto riflette sul suo vissuto personale, ma non solo, visto che tanti sono gli argomenti che passano sotto la lente di ingrandimento del suo pensiero (politica, medicina, arte, il periodo terribile della pandemia).  Tanti sono gli spunti di riflessione che il testo ci offre e l’autore ha risposto ad alcuni quesiti che sono scaturiti dalla lettura e che gli ho posto. Prima di lasciarvi all’intervista ringrazio il dottor Gramiccia per la sua disponibilità, ma anche per la profondità delle sue risposte e Ginevra Amadio per avermi inviato questo libro così interessante ed originale.

Dottor Gramiccia lei è medico, scrittore, critico d’arte, si è interessato molto anche alla politica: cosa lega questi ambiti professionali e passioni? C’è un punto di convergenza tra i suoi multiformi interessi?

“Sono un uomo e nulla di ciò che è umano mi è estraneo”, parole di Terenzio, in cui mi riconosco pienamente. Medicina, arte, letteratura, politica: si tratta di “province” della esperienza umana di importanza decisiva, direi connotante. Diciamo che l’umanità è come è per come si sono poste le grandi questioni relative al fare politica, al fare arte, al curare il corpo e la mente, al raccontare storie, al fare filosofia ecc. Il fatto che nella mia vita mi sia potuto occupare soprattutto di questi ambiti dimostra che ho avuto una considerevole fortuna, associata a una discreta dose di curiosità.

Parlando del libro, la narrazione si snoda continuamente tra l’io e il noi, in un passaggio molto naturale dalle sue vicende personali a quelle collettive. Quanto le due componenti possono essere scisse l’una dall’altra e quanto invece si compenetrano sia nel testo che nella sua esperienza di vita?

L’io e il noi sono due componenti dell’”intero” storico di cui mi occupo. La mia aspirazione è quella di raccontare una storia collettiva attraverso vicende personali. Raccontare la storia di tutti attraverso episodi della mia vita, rivisitati e corretti. Questo è il disegno di fondo, diciamo la strategia. È chiaro che quando gli episodi narrati mi coinvolgono particolarmente, allora l’io può momentaneamente prevalere. Viceversa, laddove prevale la lente “sociologica”, per esempio a proposito dei temi relativi alla pandemia, a prevalere è il noi. In un’altalena che spero interessi e soprattutto accompagni per mano il lettore, tenendolo sveglio e facendolo sorridere.

Questo testo è una sorta di saggio, ma secondo me anche a volte un memoir, scaturito dalla pandemia, come asserisce nella premessa: quel tempo sospeso le ha fatto sentito la necessità di rielaborare il passato, analizzando poi anche il nostro presente?

Proprio così. L’angoscia prodotta dalla paura del contagio ha funzionato da molla per recuperare istanze vitalistiche. E non c’è niente di meglio del serbatoio della memoria per evocarle ed alimentarle. Un caso particolare dentro una mia più vasta e complessa teoria della fragilità. Teoria che ho esposto diffusamente nel mio Elogio della fragilità, edito anch’esso da Mimesis.

Il libro parte con il racconto di un evento traumatico avvenuto nella sua infanzia, che riporto brevemente. I suoi genitori si erano recati urgentemente in ospedale con sua sorella, affidando lei ad una vicina di casa che però è tornata a dormire a casa sua; lei si è svegliato e si è trovato da solo nel letto, per cui ha cominciato a piangere, senza che nessuno, però, la sentisse. Il testo può essere un suo modo non solo per lasciare una traccia e quindi evitare di essere dimenticato e in qualche modo abbandonato, ma anche perché alcuni eventi storici non siano dimenticati?

Sul piano conscio, ho inteso raccontare una storia godibile e (spero) avvincente attraverso la quale narrare l’essenziale sul conto della mia generazione. Che su quello inconscio, come qualcuno mi ha fatto osservare, abbia voluto scrivere un testamento spirituale è possibile (non sono più giovanissimo, purtroppo). Ma io sono vagamente scaramantico e, ufficialmente, non sposo questa teoria.

Nell’introdurre il testo dice: “Attraverso i fatti voglio parlare delle idee. Perché le idee sono importanti come i fatti e ridiventano fatti in un ciclo perpetuo”. Mi ha colpito molto questa affermazione e mi piacerebbe che ne parlasse in modo più ampio. Ci sono delle idee in particolare che possono tornare e ridiventare fatti? Questo è sempre positivo o può avere delle implicazioni negative.

Prassi-teoria-prassi è l’approccio anti-idealistico di Marx che io ho fatto mio. In medicina, da sempre, questa catena conoscitiva e trasformativa della realtà è stata seguita, anche se non era filosoficamente cristallizzata. Partendo dalla pratica, una malattia, si osserva, si cerca di capirne i segni e le ragioni. Si trasforma in un quado nosografico teorico. Poi si ritorna alla prassi che si identifica con la cura. Ma anche la cura e la guarigione producono effetti teorici, destinati a influenzare la prassi. È un cerchio che si ripete all’infinito, che parte dalla prassi e ritorna sempre alla prassi, in cui i fatti diventano pensieri e i pensieri fatti. Non solo in medicina naturalmente.

L’idea della fragilità come forza propulsiva che emerge dalla lettura del suo saggio mi ha toccata molto e, anche in questo caso, desidererei che spiegasse in modo più approfondito la sua idea.

Preferisco che il mio libro venga considerato per quello che è: un romanzo a impronta autobiografica che aspira a essere un saggio narrato. Non un saggio tout court quindi. Nella narrazione che ho scelto di portare avanti, utilizzando l’ironia come strumento di intrattenimento ma anche di scavo della realtà, la fragilità è protagonista. Lo è, come sempre nella vita, perché la fragilità è una condizione ontologicamente connaturata con l’esperienza dell’esistere. La novità che credo di aver introdotto nella valutazione di questa condizione è l’idea che la consapevolezza di essa, la sperimentazione del suo peso è fondamentale per orientare le scelte dell’uomo in senso vitalistico, produttivo, creativo, rivoluzionario. La fragilità quindi come presupposto di una volontà rivolta nella direzione della liberazione del nostro potenziale vitale.

Mi pare che “La notte più buia” sia un testo nostalgico, ma non del tutto pessimista e che l’ironia stemperi un po’ l’amarezza che viene fuori dalla contemplazione del presente: conferma questa mia idea?

Il pessimismo è gramscianamente quello dell’intelligenza che non può non misurare la crisi in cui ci dibattiamo, di cui la pandemia, durante la quale questo libro è stato scritto, è stata la cartina di tornasole più fedele e clamorosa. Ma il pessimismo non sfocia mai nella disperazione. Casomai è utile a non farsi illusioni, a non rifugiarsi in una inutile e fiduciosa speranza passiva. Per coltivare casomai sogni di liberazione e di riscatto. Orizzonti entro i quali la forza scatenata da una fragilità consapevole e ribelle apre la strada a un futuro migliore sul piano individuale e collettivo. L’ironia, gli amori, le lacrime ma anche le risate, le vittorie e le sconfitte, gli errori e i successi, l’eros e l’angoscia della morte sono tutti gli ingredienti di una storia che dal passato vuole trarre non solo la forza ma anche l’idea della direzione da seguire.

Nell’opera ha fornito un ritratto, a tutto campo, della sua generazione: cosa vorrebbe che di quella generazione rimanesse ai più giovani?

L’idea che il mondo si può cambiare, che i giochi non sono mai fatti una volta per tutte. E anche che a volte (non spessissimo) vivere è piacevole e divertente.

“Tre gemelline ballerine” di Rita Pacilio con illustrazioni di Damiana Valerio (RP Libri, 2022)

 

Vi voglio presentare Dina, Gina e Pina, tre gemelle, tre deliziose birbe uguali esteriormente, ma ognuna col suo bel caratterino. Insieme impareranno ad andare d’accordo, a comprendersi e a limare quelle piccole intemperanze che possono causare problemi tra piccini, ma anche tra “grandi”.

“Tre gemelline ballerine” è una storia che, con la semplicità (apparente) tipica dei testi dedicati ai più piccoli, insegna a tutti il valore dell’empatia,  l’importanza della comprensione reciproca e del senso di unità necessario, seppur nelle differenze,

Le rime rendono il libro di Rita Pacilio perfetto per una lettura ad alta voce e le  schede di lavoro presenti alla fine possono tranquillamente essere usate a scuola con i bimbi, per invitarli a riflettere e ad interiorizzarne il significato profondo dell’opera che è stata loro proposta.

Ogni piccolo lettore potrà immedesimarsi in una delle protagoniste (anche grazie alle illustrazioni di Damiana Valerio che accompagnano il testo) ed essere portato così a fare un viaggio dentro se stesso e dentro le proprie emozioni, cosa che anche in tenera età è indispensabile, per costruire un adulto più consapevole e più sereno.

Grazie di cuore a Simona Mirabello per avermi inviato la copia del libro.

“I cannoli di Marites” di Catena Fiorello Galeano (Giunti, 2022)

Lassati stari, non durmiti chiùi,

ccà ‘mmenzu a iddi dintra a ‘sta vanedda

ci sugnu puru iù ch’aspettu a vui

pri vidiri ‘ssa facci accussi bedda

passu ccà fora tutti li nuttati

e aspettu puru quannu v’affacciati

E fu così, sulle note dolcemente struggenti di questa canzone, che scoprimmo la voce intonatissima e armoniosa di Catena Fiorello Galeano, in una bellissima serata estiva, a Senise (PZ), ad un evento organizzato dal Rotary Club Sinnia, con la collaborazione dell’Avis e del Comune.

In realtà non è stata l’unica interessante scoperta di quella sera, durante la presentazione dell’ultima fatica letteraria dell’autrice, “I cannoli di Marites”: la sua umanità e la sua simpatia sono state, onestamente, inaspettate, per chi, come me, non la conosceva in modo approfondito. La scrittrice è riuscita ad incuriosire e ad affascinare chi l’ascoltava con una semplicità incredibile, grazie ad una capacità di comunicazione eccezionale, senza risultare pedante e senza affettazione.

Mentre firmava le copie dell’opera ha dedicato del tempo ad ognuno dei lettori presenti nonché all’adorabile cagnolino Balù e a noi di “Un libro e un caffè”, interloquendo come se fosse una conoscente di lunga data. Consiglio a tutti, assolutamente, di presenziare ad un incontro con la scrittrice siciliana, perché di sicuro saranno delle ore piacevolissime.

Dopo questo doveroso preambolo, però, vorrei parlare nel dettaglio del libro, che è il secondo capitolo della serie dedicata alle mitiche cinque signore di Monte Pepe (il primo si intitola “Cinque donne e un arancino”), donne meravigliose che hanno aperto una rosticceria in questo delizioso borgo in Sicilia, riuscendo a renderla famosa in tutto il mondo. Il notevole successo dell’attività spinge le signore a cercare un aiuto, per cui assumono Marites, una giovane cuoca che proviene dalle Filippine e che si rivela abilissima nella preparazione delle leccornie locali.

Rosa e la sua tenacia, Nunziatina e la sua ricerca della poesia in ogni momento della giornata perché i versi consolano e liberano le emozioni, Maria e la sua timidezza, Sarina e la sua inquietudine, Giuseppa e la sua sagacia ma anche la sua volontà di apprendere, Marites e la sua forza di volontà: tutte le componenti di questo gineceo, alle prese con le loro personali battaglie, i loro amori, i moti del loro animo, le loro debolezze, il loro coraggio, non possono non entrare nel cuore di chi fa la loro conoscenza.

Personalmente, devo confessarlo, sono stata letteralmente folgorata da Nunziatina: abbiamo disperatamente bisogno di poesia in questo mondo che purtroppo spesso ci mostra solo il suo lato peggiore e che non invoglia a cercare la meraviglia nelle cose più comuni; così come tutti i posti in cui viviamo, piccoli o grandi che siano, dovrebbero diventare “Borghi della Poesia e dell’Incanto”.

Essendo una storia prevalentemente al femminile, si è toccato, approfondendo il testo, un tema importantissimo, quello del femminismo e in particolare si è detto che il femminismo di sostanza spesso si “scontra” con il femminismo di concetto, che a volte fa perdere vigore a tutte le battaglie delle donne; è stata affrontata, poi, anche la tematica dell’integrazione.

Quello raccontato in questo volume è, senza dubbio, un femminismo di sostanza, perché la solidarietà tra donne, la forza di prendere decisioni scomode e di sostenerle, sono l’esempio perfetto di come si possa essere concretamente femministi, e quella che emerge dal libro è una reale integrazione, quella senza riserve che porta al rispetto totale, non alla semplice accettazione dell’altro.

Ci si sente a casa a Monte Pepe, in un microcosmo fatto di valori veri, di sentimenti veri, di sapori veri (non è un caso che i piatti tipici, i paesaggi della terra d’origine siano raccontati con dovizia di particolari), così come il linguaggio è assolutamente autentico, semplice, ma non piatto, raffinato al punto giusto e con alcune deliziose incursioni del dialetto.

Ci si sente a casa nel romanzo di Catena Fiorello Galeano, così come, si respirava un’atmosfera familiare mentre lei dialogava con il pubblico. È raro che i libri siano lo specchio fedele di chi li ha concepiti, ma mai come in questo caso posso testimoniare che scritto e autore sono assolutamente un tutt’uno. Niente trucchi, niente inganni, solo verità e una narrazione adatta a tutti e che può arrivare a tutti. Credo che non ci sia nulla di più bello!

Vorrei tanto qualche spoiler sulle prossime avventure che attendono le nostre signore, ma per quello, lo so già, dovrò attendere. Sarà però, senz’altro, un altro viaggio fantastico.

Postilla con le domande che avrei voluto rivolgere a Catena Fiorello Galeano:

  • Tra le protagoniste, qual è quella in cui Lei si rispecchia di più?
  • Ha tratto ispirazione da qualche donna di sua conoscenza in particolare?
  • Come si riesce a mantenere l’equilibrio fra semplicità e raffinatezza?
  • Ha detto che le piacerebbe fare un giro per i paesi i più piccoli della Basilicata e diventare una “cantastorie”. C’è un retaggio derivante dalla narrazione orale nel suo romanzo?
  • Nel testo viene, ovviamente, raccontata la Sicilia in tutta la sua bellezza, però ho anche l’impressione che Monte Pepe diventa quasi un archetipico: è un’impressione corretta?

“Domani e per sempre” di Ermal Meta (La nave di Teseo, 2022)

Un esordio letterario straordinario: non potrei definire diversamente il primo romanzo di Ermal Meta, “Domani e per sempre” (il titolo, meraviglioso, rappresenta una promessa di rinascita). L’opera narra le vicende di Kajan, le sue tante vite, le “sue discese ardite e le sue risalite”, a partire dall’infanzia trascorsa in campagna con nonno Betim ‒ siamo nell’Albania occupata dai Tedeschi ‒ fino all’avvento del regime comunista e alla sua caduta.

In effetti, una delle coprotagoniste di quest’opera è proprio la Storia, che assume il ruolo di “grande burattinaio” che muove i fili del destino del nostro protagonista, di un popolo intero, quello albanese, e di tanti altri uomini che sono costretti ad attraversarla e a schierarsi dalla parte del bene o del male. Purtroppo sembra che soprattutto i potenti non abbiano imparato molto dal passato, come dimostrano i fatti di più stretta attualità. Non si può non andare col pensiero a ciò che sta accadendo in Ucraina, in alcune circostanze. Per questo motivo il testo diventa ancora più prezioso e importante.

La vita del giovane professore di pianoforte, che si fa vera e propria epopea, permette all’autore di fare luce su eventi che forse non tutti conoscono, ma anche di raggiungere l’anima del lettore arrivando ai punti nevralgici dell’esistenza di ognuno: i concetti di giusto e sbagliato e di quanto sia labile, a volte, il loro confine, ad esempio. Si mettono in luce rapporti familiari così fondamentali e complessi e si parla di l’identità, quella data dalle proprie radici e quella acquisita con lo scorrere del tempo, quella che a volte bisogna “adattare” ai cambiamenti esterni per sopravvivere. Infine, uno spazio importante è occupato dall’amore, forza dirompente e vivificante, che addolcisce o fa soffrire.

Componente fondamentale del libro, poi, è la musica. La musica è nei libri, sostiene Ermal, ed in effetti questo testo è intriso di musica. Essa è estensione del pensiero e dei sentimenti di Kajan, collante delle relazioni umane intessute nel racconto ‒ commovente è il fatto che sia Cornelius, un soldato tedesco che diserta e viene protetto da Betim, a dare lezioni di piano al piccolo e fargli amare questo strumento. Essa è inoltre rifugio, sfogo, passione e dono prezioso. Ci sono le canzoni del cantautore, che in modo discreto, a volte, fanno capolino.

C’è musica però anche nel ritmo narrativo che ha dei tempi perfetti, con le giuste accelerazioni e le pause necessarie per approfondire adeguatamente, al momento opportuno.

Il risultato è un’opera scorrevole, trascinante al punto di non volerla abbandonare. Si va avanti, in effetti, fino a quando tutti i suoi pezzi  sono al loro posto. “Domani e per sempre” è anche solido, articolato, accessibile e con tante sfumature. Il buio e la durezza del dolore, la tenerezza, la rabbia e la speranza sono i colori contrastanti con i quali è dipinto questo affascinante affresco umano e storico.

A mio parere, quando, dopo aver letto le prime pagine di un libro, si ha l’impressione di tornare in un ambiente conosciuto e accogliente, chi lo ha scritto ha colpito nel segno ed Ermal lo ha sicuramente fatto, perché le pagine che ci offre sono avvincenti e avvolgenti, quasi ipnotiche. L’autore cerca di farci entrare, a mio avviso, in punta di piedi nel racconto, con una delicatezza estrema nonostante le tematiche trattate, quasi come se avesse pudore, ma questo non impedisce di immedesimarci e di entrarci totalmente.

Kajan diventa quasi presente in carne ed ossa, con la sua sensibilità, la sua curiosità e la sua maestria professionale, così come Betim con la sua dolcezza e la sua saggezza, Elizabeta che incarna l’innocenza del primo amore o Selie (la mamma di Kajan) con la sua assoluta rigidità e intransigenza.

L’abilità di Ermal, nel tradurre i concetti in immagini puntuali, originali e dal forte impatto emotivo, si conferma anche in una diversa forma di composizione artistica. Mi ha sempre affascinato il suo modo di descrivere e definire le cose, e con le sue parole, ancora una volta, colpisce, fa riflettere, fa sorridere, piangere; illumina con grazia e potenza rare. Questo libro è un pugno ed una carezza al tempo stesso,  il frutto di un lavoro di ricerca poderoso che aiuta a contestualizzare in modo preciso i fatti.

Le parole hanno un peso, possono essere macigni, piume, fonte di meraviglia e il cantautore le sa utilizzare magistralmente.

Tante sono le frasi che ho sottolineato e che conserverò nei cassetti della memoria, ma vorrei chiudere questa recensione, nella quale ho messo tutto il cuore e non solo “un pezzo”, con l’esempio più lampante di quanto la penna di Ermal tracci percorsi che conducono in un solo luogo, ossia ad un’incomparabile bellezza.

“Quello che ci accomuna è il respiro. Tutti respiriamo per vivere. Ma c’è un momento in cui anche il respiro è in pausa, in cui rimane in silenzio. Quella frazione di secondo fra l’inspirazione e l’espirazione in cui i polmoni si fermano, ma noi continuiamo a vivere. Mezzo secondo di niente, in cui tuttavia continuiamo a esistere. Sei secondi al minuto in cui l’aria non entra né esce, centoquaranta minuti in ventiquattro ore, trentasei giorni in un anno, sei anni in settant’anni in cui il tempo si ferma nei nostri polmoni. Sembra tanto, ma non ce ne accorgiamo, e mentre danziamo con la morte sorridiamo alla vita, un respiro dopo l’altro, una nota dopo l’altra, un silenzio dopo l’altro”.

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