“La notte più buia” è l’ultima opera dell’eclettico dottor Roberto Gramiccia, che in questo saggio “atipico” racconta e soprattutto riflette sul suo vissuto personale, ma non solo, visto che tanti sono gli argomenti che passano sotto la lente di ingrandimento del suo pensiero (politica, medicina, arte, il periodo terribile della pandemia).  Tanti sono gli spunti di riflessione che il testo ci offre e l’autore ha risposto ad alcuni quesiti che sono scaturiti dalla lettura e che gli ho posto. Prima di lasciarvi all’intervista ringrazio il dottor Gramiccia per la sua disponibilità, ma anche per la profondità delle sue risposte e Ginevra Amadio per avermi inviato questo libro così interessante ed originale.

Dottor Gramiccia lei è medico, scrittore, critico d’arte, si è interessato molto anche alla politica: cosa lega questi ambiti professionali e passioni? C’è un punto di convergenza tra i suoi multiformi interessi?

“Sono un uomo e nulla di ciò che è umano mi è estraneo”, parole di Terenzio, in cui mi riconosco pienamente. Medicina, arte, letteratura, politica: si tratta di “province” della esperienza umana di importanza decisiva, direi connotante. Diciamo che l’umanità è come è per come si sono poste le grandi questioni relative al fare politica, al fare arte, al curare il corpo e la mente, al raccontare storie, al fare filosofia ecc. Il fatto che nella mia vita mi sia potuto occupare soprattutto di questi ambiti dimostra che ho avuto una considerevole fortuna, associata a una discreta dose di curiosità.

Parlando del libro, la narrazione si snoda continuamente tra l’io e il noi, in un passaggio molto naturale dalle sue vicende personali a quelle collettive. Quanto le due componenti possono essere scisse l’una dall’altra e quanto invece si compenetrano sia nel testo che nella sua esperienza di vita?

L’io e il noi sono due componenti dell’”intero” storico di cui mi occupo. La mia aspirazione è quella di raccontare una storia collettiva attraverso vicende personali. Raccontare la storia di tutti attraverso episodi della mia vita, rivisitati e corretti. Questo è il disegno di fondo, diciamo la strategia. È chiaro che quando gli episodi narrati mi coinvolgono particolarmente, allora l’io può momentaneamente prevalere. Viceversa, laddove prevale la lente “sociologica”, per esempio a proposito dei temi relativi alla pandemia, a prevalere è il noi. In un’altalena che spero interessi e soprattutto accompagni per mano il lettore, tenendolo sveglio e facendolo sorridere.

Questo testo è una sorta di saggio, ma secondo me anche a volte un memoir, scaturito dalla pandemia, come asserisce nella premessa: quel tempo sospeso le ha fatto sentito la necessità di rielaborare il passato, analizzando poi anche il nostro presente?

Proprio così. L’angoscia prodotta dalla paura del contagio ha funzionato da molla per recuperare istanze vitalistiche. E non c’è niente di meglio del serbatoio della memoria per evocarle ed alimentarle. Un caso particolare dentro una mia più vasta e complessa teoria della fragilità. Teoria che ho esposto diffusamente nel mio Elogio della fragilità, edito anch’esso da Mimesis.

Il libro parte con il racconto di un evento traumatico avvenuto nella sua infanzia, che riporto brevemente. I suoi genitori si erano recati urgentemente in ospedale con sua sorella, affidando lei ad una vicina di casa che però è tornata a dormire a casa sua; lei si è svegliato e si è trovato da solo nel letto, per cui ha cominciato a piangere, senza che nessuno, però, la sentisse. Il testo può essere un suo modo non solo per lasciare una traccia e quindi evitare di essere dimenticato e in qualche modo abbandonato, ma anche perché alcuni eventi storici non siano dimenticati?

Sul piano conscio, ho inteso raccontare una storia godibile e (spero) avvincente attraverso la quale narrare l’essenziale sul conto della mia generazione. Che su quello inconscio, come qualcuno mi ha fatto osservare, abbia voluto scrivere un testamento spirituale è possibile (non sono più giovanissimo, purtroppo). Ma io sono vagamente scaramantico e, ufficialmente, non sposo questa teoria.

Nell’introdurre il testo dice: “Attraverso i fatti voglio parlare delle idee. Perché le idee sono importanti come i fatti e ridiventano fatti in un ciclo perpetuo”. Mi ha colpito molto questa affermazione e mi piacerebbe che ne parlasse in modo più ampio. Ci sono delle idee in particolare che possono tornare e ridiventare fatti? Questo è sempre positivo o può avere delle implicazioni negative.

Prassi-teoria-prassi è l’approccio anti-idealistico di Marx che io ho fatto mio. In medicina, da sempre, questa catena conoscitiva e trasformativa della realtà è stata seguita, anche se non era filosoficamente cristallizzata. Partendo dalla pratica, una malattia, si osserva, si cerca di capirne i segni e le ragioni. Si trasforma in un quado nosografico teorico. Poi si ritorna alla prassi che si identifica con la cura. Ma anche la cura e la guarigione producono effetti teorici, destinati a influenzare la prassi. È un cerchio che si ripete all’infinito, che parte dalla prassi e ritorna sempre alla prassi, in cui i fatti diventano pensieri e i pensieri fatti. Non solo in medicina naturalmente.

L’idea della fragilità come forza propulsiva che emerge dalla lettura del suo saggio mi ha toccata molto e, anche in questo caso, desidererei che spiegasse in modo più approfondito la sua idea.

Preferisco che il mio libro venga considerato per quello che è: un romanzo a impronta autobiografica che aspira a essere un saggio narrato. Non un saggio tout court quindi. Nella narrazione che ho scelto di portare avanti, utilizzando l’ironia come strumento di intrattenimento ma anche di scavo della realtà, la fragilità è protagonista. Lo è, come sempre nella vita, perché la fragilità è una condizione ontologicamente connaturata con l’esperienza dell’esistere. La novità che credo di aver introdotto nella valutazione di questa condizione è l’idea che la consapevolezza di essa, la sperimentazione del suo peso è fondamentale per orientare le scelte dell’uomo in senso vitalistico, produttivo, creativo, rivoluzionario. La fragilità quindi come presupposto di una volontà rivolta nella direzione della liberazione del nostro potenziale vitale.

Mi pare che “La notte più buia” sia un testo nostalgico, ma non del tutto pessimista e che l’ironia stemperi un po’ l’amarezza che viene fuori dalla contemplazione del presente: conferma questa mia idea?

Il pessimismo è gramscianamente quello dell’intelligenza che non può non misurare la crisi in cui ci dibattiamo, di cui la pandemia, durante la quale questo libro è stato scritto, è stata la cartina di tornasole più fedele e clamorosa. Ma il pessimismo non sfocia mai nella disperazione. Casomai è utile a non farsi illusioni, a non rifugiarsi in una inutile e fiduciosa speranza passiva. Per coltivare casomai sogni di liberazione e di riscatto. Orizzonti entro i quali la forza scatenata da una fragilità consapevole e ribelle apre la strada a un futuro migliore sul piano individuale e collettivo. L’ironia, gli amori, le lacrime ma anche le risate, le vittorie e le sconfitte, gli errori e i successi, l’eros e l’angoscia della morte sono tutti gli ingredienti di una storia che dal passato vuole trarre non solo la forza ma anche l’idea della direzione da seguire.

Nell’opera ha fornito un ritratto, a tutto campo, della sua generazione: cosa vorrebbe che di quella generazione rimanesse ai più giovani?

L’idea che il mondo si può cambiare, che i giochi non sono mai fatti una volta per tutte. E anche che a volte (non spessissimo) vivere è piacevole e divertente.