Un libro e un caffè

"Leggere è sognare per mano altrui". Fernando Pessoa, Il libro dell'inquietudine.

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“La rosa dei venti – Le Gocce di Lazhull” di Mirko Hilbrat

 

Mi ha fatto molto piacere ricevere, per la seconda volta, una proposta di lettura da parte dell’agenzia “Scrittura a tutto tondo” e devo dire che, anche in questo caso, non sono rimasta delusa dal testo che mi è stato inviato.

“La rosa dei venti – Le gocce di Lazhull”, di Mirko Hilbrat, è un fantasy intricato, pieno di azione e suspense. Gli appassionati del genere si divertiranno moltissimo immergendosi nelle avventure della grintosa e ribelle principessa Syria, del coraggioso cavaliere Rion, del saggio consigliere Serin, del principe “traditore” Mortis.

Le 546 sono costellate da battaglie all’ultimo sangue (regni in contrasto, ma in senso più ampio buoni e cattivi, si combatteranno duramente e senza esclusione di colpi) e abitate da una fantasiosa schiera di vampiri, elfi ed esseri dotati di poteri magici.

I due personaggi principali, Syria e Rion, sono senza dubbio molto affascinanti, sono caratterizzati in modo estremamente efficace e riescono a colpire con facilità ed immediatezza il lettore. La protagonista femminile è una giovane audace che non ha paura di sovvertire le regole per seguire il suo cuore, mantenendo una promessa fatta a suo padre mentre il ragazzo, che ha un passato misterioso di cui non conserva alcun ricordo, è riflessivo, corretto, desideroso di farsi valere, ma non irruento.

La capacità immaginifica dell’autore emerge nitidamente nel mondo, o meglio, nei vari mondi che racconta e forse questa è la cosa che più mi ha colpito del suo romanzo. Devo confessare che non sono un’accanita “consumatrice” di fantasy, eppure ammiro molto chi, come Mirko Hilbrat, con impegno e grande inventiva riesce a creare qualcosa di originale e inusuale.

Soprattutto un pubblico giovane potrebbe, a mio parere, apprezzare il libro “La rosa dei venti”, magari leggendolo piano piano, “a puntate”, quasi come fosse un serie televisiva (in effetti ci sarà un seguito, quindi l’idea della serialità è già in qualche modo presente negli intenti di Hilbrat) ed è l’ideale per queste giornate o serate festive in cui si potrebbe voler divagare ed evadere.

“Magmamemoria” di Levante (Parlophone, Warner Music Italy, 2019)

Mi sono irrimediabilmente e perdutamente innamorata di “Magamamemoria”, il nuovo lavoro di Levante, intimo, anzi viscerale, delicato eppure potentissimo, ricercato ma non pretenzioso.

Ho sempre ammirato la cura e l’attenzione nella scelta delle parole della cantautrice di origine siciliana, confermate dalla scelta di un titolo così raffinato, evocativo, efficace e rappresentativo.

La title track mi ha conquistata immediatamente. Magmamemoria è un brano breve, ma prezioso, che costituisce la porta d’accesso all’album, che lo “battezza”, dandogli il nome (“Cremisi agli occhi dei giorni di gloria/Ecco il tuo nome, ti chimerai Magmamemoria). Mi è parso quasi il canto etereo di una sirena che invita ad ascoltare quanto verrà raccontato in seguito. Il testo, a mio avviso, è una vera e propria poesia che si intreccia in modo mirabile ad una musica dolce e carezzevole (da brividi sono i vocalizzi tra la fine della strofa e il ritornello).

 

“Non era vero

Tu non muori mai, tu non muori mai

Sei dentro di me

Come le vele spiegate dal vento

Spiegami perché ti aggrappi al ventre?

Non era vero

Tu non muori mai, tu non muori mai

Sei dentro di me

Navighi i mari della memoria

Riporti a galla, il mio petto brucia

Ancora, ancora gettata in fondo a me

Scardini le mie certezze

E ora che ritorni che farò?”

 

Si può rimuginare sul passato, riflettere, ma “per amare non esiste un corso d’aggiornamento”, “per essere felici in due” non esistono regole predefinite e ricette particolari”: questo è il messaggio che si evince da “Regno animale”, brano che ho apprezzato tantissimo perché estremamente coinvolgente. Colpiscono molto, anche in questo caso, i momenti finali delle strofe. L’unione tra musica parole riesce a far breccia nell’emotività dell’ascoltatore.

 

“Quanto tempo resterà se dividi per sempre?

Se il passato un errore e ho buttato via l’amore.

Ho avuto tutte le notti pe moltiplicare i sogni

Sistemare i miei pensieri

E archiviare i ricordi dei giorni perfetti

E come nei film c’ una scena finale

Dove vado di fretta, la mia vita mia spetta”

 

 

Una menzione particolare, secondo me, spetta all’introduzione di “Antonio”, che sembra l’interludio ad una pellicola in bianco e nero e conduce perfettamente nell’atmosfera sognante ma anche un po’ malinconica di questa canzone che evoca un amore intenso e felice, riassunto perfettamente nel verso “Se apro le braccia volo”.

Mi sono concentrata sul lato più intimista e personale dell’album, ma ci sono due canzoni molto interessanti che fanno un ritratto feroce, ma centratissimo della società odierna, di questi tempi “deserti di coraggio”: “Andrà tutto bene” e “Bravi tutti voi”.

 

“Incappo in un sacchetto, nella tua indifferenza

In fondo a questa strada hanno già perso la pazienza

I corsi di paura

ricorsi della storia

per trattenerci in una morsa senza memoria”

“Ce lo dirà il tempo che grande smarrimento è stato rimanere fermo”

 

Ho citato solo due stralci di queste canzoni, ma esse meriterebbero di essere analizzate in modo più approfondito. Di sicuro sono il frutto delle considerazioni di un’artista sensibile e attenta a quello che succede nel mondo che la circonda, che non vuole chiudere gli occhi di fronte ad alcune tematiche.

Gli alti titoli che compongono la tracklist sono ugualmente pregevoli. “Rancore” forse è brano più rabbioso anche se mitigato da sonorità non così “spigolose” mentre “Arcano 13” è il più struggente. “Il giorno prima dell’inizio non ha mai avuto fine” è una canzone originale, dalla musicalità “avvolgente”. “Questa è l’ultima volta che ti dimentico” e “Se non ti vedo non esisti” sono legate agli omonimi romanzi scritti da Levante (entrambi bellissimi), “Reali” è trascinante, “Saturno” sofisticata ed elegante mentre “Lo stretto necessario” con Carmen Consoli è un omaggio alla Sicilia e quindi alle radici della cantautrice. “

In un mondo musicale ormai intriso di omologazione, l’originalità, la profondità e la qualità di questo disco sono una boccata d’ossigeno e meritano di ottenere il giusto riconoscimento.

 

Intervista a Mariolina Venezia.

Finalmente tra poco andrà in onda, su Rai1, la fiction “Imma Tataranni – Sostituto Procuratore”, cosa della quale sono estremamente felice, da lucana e da estimatrice dei romanzi dai quali la serie è tratta. Per l’occasione ho pensato di fare un regalo a me e ai lettori del blog, ponendo delle domande alla scrittrice che ha dato vita all’eccentrica procuratrice materana. Sono onorata, dunque, di presentarvi questa intervista a Mariolina Venezia, che ringrazio sentitamente. Non vi nascondo che per me è stato molto emozionante parlare con un’autrice del suo calibro e in effetti, in alcuni momenti della nostra chiacchierata, gli effetti dell’emozione si sono fatti sentire. Tralasciando le défaillance della sottoscritta, trovo che le risposte che ho ricevuto siano straordinarie e ricche di spunti interessanti. Buona lettura dunque e mi raccomando, non perdete la fiction questa sera e correte in libreria, il 24, a comprare “Via del Riscatto”, il quarto volume della saga dedicata alla Tataranni.

 

 

  • C’è un legame, un filo conduttore tra “Mille anni che sto qui” e “Come piante tra i sassi”, anche se sono opere molto diverse tra loro?

 

Sì, anche se sono, appunto, opere molto diverse, c’è un filo conduttore perché “Mille anni che sto qui” si interrompe nel 1989, quando cade il muro di Berlino e inizia la globalizzazione. “Mille anni che sto qui” racconta il territorio, racconta la Basilicata e io volevo continuare a parlare di questa terra e di quello che succede in Basilicata dopo il 1989. Inizialmente avevo pensato di continuare la saga, però poi mi sono resa conto che parlare dei giorni moderni non è facile con la forma della saga, per questo a un certo punto ho individuato nel giallo il modo migliore per poter raccontare alcune cose che succedono in Basilicata, non perché io voglia continuare a parlare a tutti i costi della Basilicata, ma perché penso che sia una terra dove ci sono dei contrasti talmente forti che vanno al di là del luogo stesso e che quindi raccontano un po’ tutta l’Italia. Il tono di “Mille anni che sto qui è lirico, poetico e quello di Imma a volte invece è spoetizzante, ma anche nei romanzi di Imma ci sono delle pagine liriche, che sono in genere legate al paesaggio e c’è appunto questo contrasto con uno sguardo più scanzonato, più materialista a volte, che è quello di Imma.

 

  • In effetti lei riesce a far coesistere perfettamente un linguaggio lirico e poetico e un linguaggio più realistico, ad esempio quando parla Imma con le sue “inflessioni dialettali”. Com’è riuscita a trovare questo equilibrio linguistico?

 

Prima mi chiedeva della continuità tra “Mille anni che sto qui” e i romanzi di Imma. Anche nel linguaggio ho proseguito la stessa ricerca, in qualche modo, perché in “Mille anni che sto qui” uso un linguaggio dove c’è un’eco del tempo che racconto, quindi quando parlo dell’Ottocento c’è l’eco di quel linguaggio ottocentesco pieno di dialetto, pieno di un tempo molto disteso, molto lungo che diventa più veloce man mano che ci si avvicina ai giorni nostri. Nei romanzi di Imma non c’è proprio il dialetto, ma c’è quel tipo di linguaggio che adotta chi viene dal dialetto e quindi di chi oggi parla l’Italiano, ma un Italiano fortemente influenzato dal dialetto, dalle espressioni dialettali o gergali, un Italiano molto parlato, anche se nello stesso tempo c’è molta cura del linguaggio. Di solito nel giallo lo scrittore deve scomparire, ma i miei gialli sono un po’ diversi perché c’è comunque un’elaborazione letteraria. Devo dire che col tempo (Imma ormai è al suo quarto romanzo, il quarto esce fra poco, il 24 settembre) ho trovato un equilibrio, con un linguaggio che desse qualcosa al lettore, che gli facesse vivere delle emozioni, che lo divertisse e lo facesse riflettere, senza però dilungarmi troppo. Bisognava fare in modo che l’aspetto letterario non prevalesse su quello giallistico. Questo equilibrio si è delineato col tempo, tanto è vero che nell’edizione tascabile ho rivisto anche “Maltempo” e “Come piante tra i sassi” perché mi sono accorta che andavano limate la parte letteraria e le digressioni, che pure ci sono, di mondo che il lettore potesse gustare il giallo, senza però rinunciare a qualcosa di più elaborato.

 

  • Quanto è difficile far evolvere un personaggio che è diventato così familiare e riconoscibile?

 

Non è difficile, nel senso che, come dicono spesso gli scrittori seriali, e quindi anch’io, il primo romanzo di Imma non è nato come il primo di una serie. Questo personaggio, però, ha continuato ad essere molto vitale, mi venivano in mente altre cose e ad un certo punto mi sono detta che avrei potuto scrivere un altro libro. Quindi è stata una cosa naturale quella di continuare a farlo vivere. Credo, però, che si debba avere il polso della situazione. Bisogna capire fino a che punto il personaggio è vivo e fermarsi prima che diventi ripetitivo, che diventi una sorta di formula da propinare ogni volta al lettore.

 

  • Ho definito Imma un’icona, un’eroina sui generis perché è iconica, ma anche una donna molto normale, una moglie una mamma con tutte le sue problematiche. Si è ispirata a qualcuno per darle vita?

 

Più che il fatto di essermi ispirata a qualcuno, che non è molto interessante, quello che invece mi sembra interessante evidenziare è una tematica in Imma. Siamo in un mondo in cui è obbligatorio essere originali, distinguersi dalla massa, trovare delle cose ricercate, Imma è contraria a tutto questo. Proprio in questo suo essere contraria sta la sua originalità, alla fine, perché Imma non cerca di essere originale, non cerca di essere quello che non è, quindi in questo aderire a se stessa diventa originale. Ogni essere umano, in realtà, se è se stesso, è originale perché non ci sono due persone uguali e quindi solo in una ricerca di originalità si rischia di diventare uguali agli altri. Questo è uno dei tratti di Imma, che si rifà anche alla tradizione. Lei è una donna molto legata alla tradizione, anche se poi è una donna molto moderna. Vive il suo ruolo in maniera moderna, vive in modo moderno il suo rapporto con gli uomini, con suo marito, con il giovane Carabiniere. In lei c’è questo misto di modernità e tradizione che a me piace sempre molto.

 

  • Un altro elemento che apprezzo molto dei suoi romanzi è la sua capacità di descrivere luoghi e personaggi. Questa sua capacità descrittiva è influenzata dal suo lavoro di sceneggiatrice?

 

In realtà è un po’ il contrario. Ho iniziato a fare la sceneggiatrice perché avevo questo “talento visivo”. Già le prima poesie che ho scritto (il mio primo avvicinarmi alle porte letterarie è stato attraverso dei libri di poesia che ho pubblicato in Francia), erano delle poesie molto visive, quasi dei quadri fatti con le parole. Da lì si è sviluppato poi il legame con il cinema e con le arti legate a ciò che si vede. In ogni caso è anche una cosa molto personale, mia. Amo molto, sin da quando ero piccola, andare in giro, in macchina e perdermi nell’osservazione del paesaggio, che è molto ricca, molto suggestiva e mi suggerisce sempre delle fantasie, delle emozioni e da lì vengono questi romanzi. Infatti un signore ha colto questa cosa e mi ha detto che gli sembrava di vedere qualcuno che se ne andava in giro e che poi riportava le sue sensazioni.

 

  • Per quel che riguarda la fiction, non è mai semplice, secondo me, fare una trasposizione televisiva o cinematografica di un libro…

 

In questo caso non avrebbe dovuto essere difficile, perché Imma mi è stata suggerita anche, in qualche modo dal mio lavoro di sceneggiatrice, per vari motivi. Mi sono diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia in sceneggiatura e questo è il mio lavoro. Questi libri, però, sono stati ispirati anche da un incontro, nel 2000, con Petros Markaris, un Greco, uno degli sceneggiatori di Angelopulos fautore di un cinema poetico e alto, quindi, che però lavorava anche per le serie Tv greche e scrittore di gialli. Lui mi ha dato un po’ l’idea di scrivere questi romanzi, non così lontani dalla sceneggiatura. Anzi quando ho lavorato alla sceneggiatura mi sono resa conto che Imma rende più in sceneggiatura che sulla pagina, per questo suo modo di fare, per il suo essere molto visivo, molto caratterizzato dal punto di vista visivo, gestuale, del movimento e dell’immagine. Detto questo le difficoltà non sono state insiste nel lavoro di adattamento, quanto nel rapporto con gli altri sceneggiatori.

 

  • Siamo arrivate all’ultima domanda. Mi piacerebbe sapere come descriverebbe la sua Matera e la sua Basilicata letterarie.

Be’ forse dovremmo lasciarle descrivere a chi legge. Comunque parlo di una Basilicata fatta di contrasti, in cui l’arcaico convive con il moderno e quindi più si va avanti con la modernità, più lo stridio tra queste due culture è forte e crea delle situazioni drammatiche. Il paesaggio diventa drammatico, ad esempio, quando vediamo queste lande, queste colline di grano tutte gialle o tutte verdi, con le pale eoliche che sembrano una cosa mista tra la fantascienza e il Medioevo. C’è quindi la drammaticità del paesaggio, anche degli sfregi fatti al paesaggio con le pale eoliche, ma anche la comicità dello scontro di culture per cui, per esempio, in “Rione Serra Venerdì” c’è questa vecchietta vestita di nero che insegue la Tataranni chiedendo se fosse vero la vittima faceva bondage, perché ormai che un certo tipo di linguaggio è accessibile a tutti e quindi diventa comico.

“Addio fantasmi” di Nadia Terranova (Einaudi, 2018)

Vorrei cominciare questa recensione con un preambolo: ci sono libri che vanno letti, lasciandosi andare alle emozioni, senza che la testa cerchi di analizzarli troppo. Forse è questo il motivo per il quale ho impiegato così tanto tempo per scrivere qualcosa su “Addio fantasmi”, un romanzo dalla prosa raffinatissima che ha un’alta carica emozionale, tutti fattori che probabilmente dovevano essere “assimilati” per essere poi discussi in un articolo.

Nella storia di Ida, che torna in Sicilia per aiutare la madre con i lavori di ristrutturazione della loro casa, non vi è nulla di scontato o sdolcinato perché la donna ci “sbatte in faccia” il dolore per la scomparsa del padre in tutta la sua forza travolgente, non a parole, ma attraverso silenzi, “fughe”, armandosi di una corazza durissima che si è costruita crescendo e un carattere spigoloso, difficile.

L’interiorità della protagonista, un complesso intreccio fatto di “non detti”, di mancate risposte, di sentimenti repressi, ci viene “offerta” in modo diretto, senza edulcorazioni, eppure con mirabile equilibrio.

Nadia Terranova è abilissima nel tratteggiare una figlia che ha vissuto da ragazzina qualcosa che era più grande di lei, nel descrivere una casa realmente e simbolicamente piena di problematiche, di crepe e quindi una famiglia che da porto sicuro diventa ambiente di disagio, di insicurezza.

L’abitazione, dunque, diventa una delle metafore fondanti del libro. Come ha fatto giustamente notare la scrittrice Claudia Durastanti in un suo bellissimo articolo, in “Addio fantasmi” “l’anima si disfa come si disfa una casa”.

L’autrice è in grado, poi, di rendere concreto il “fantasma” di Sebastiano Laquidara, evoca la sua assenza, facendone una presenza quanto mai viva. Il tempo non affievolisce i ricordi, anzi la loro intensità e la loro nitidezza vengono amplificate non solo dall’incertezza sulle sue sorti, ma proprio dall’effetto dirompente che la scomparsa ha avuto sulla psiche della giovanissima Ida.

Oggetti, sogni, stanze, tutto concorre a scavare in una ferita ancora sanguinante. Tangibile ed evanescente, reale e inconscio si fondono e confondono nella narrazione avvicinandoci ai pensieri della protagonista e dando loro corpo e spessore.

Ho parlato di elementi simbolici e uno dei rappresentativi è sicuramente il mare. Da sempre è utilizzato per raffigurare la vita sia nella bonaccia che nella tempesta, l’animo umano e la sua profondità, ma in “Addio fantasmi” assume altre valenze. Anch’esso, infatti, è spazio della memoria e in seguito elemento foriero di catarsi e liberazione.

Più metto per iscritto le mie considerazioni, più mi rendo conto di quanto debba essere stato difficile scrivere quest’opera, parlare di sofferenza con coraggio e verità, in modo franco, asciutto, senza scadere nel sentimentalismo. Penso a quanto debba essere stato complicato non banalizzare un tema tanto importante, dargli sfaccettature inedite. La Terranova riesce in questo intento, non solo grazie al fatto che Sebastiano è andato via e non si sa se sia morto, se si sia rifatto una vita, ma proprio grazie ad una scrittura molto intima e una prospettiva “soggettiva”.

Questa sorta di confessione in prima persona è tanto dura quanto toccante ed è ideale per chi ama libri forti, dal sapore decisamente intenso.

“Rum e Segreti” di Jane Rose Caruso

Miss Book è tornata, con i suoi manicaretti e la sua capacità di risolvere i problemi delle persone che le stanno intorno.

Dopo essere partita per Barringhton, viene richiamata d’urgenza a Beltroy per risolvere lo spinoso caso delle morte di Mr. Bell, un uomo brutale e violento che ha sempre maltrattato moglie e figli.

La donna userà tutta la sua saggezza e tutto il suo intuito per venire a capo del misterioso decesso, per riportare la calma nel piccolo paesino e soprattutto nelle anime delle persone a lei più vicine.

Il cibo anche in “Rum e Segreti” è il “pretesto” per parlare dei sentimenti, degli stati d’animo dei personaggi. Ogni pietanza contiene tutta la cura e la sensibilità della protagonista e diventa qualcosa di più che semplice cibo, qualcosa di simbolico che allevia le pene, aiuta o dà forza in determinanti momenti.

L’atmosfera del testo è sicuramente meno leggera rispetto agli altri volumi della serie. La linea gialla che lo percorre gli conferisce in qualche modo una cupezza maggiore, anche se mitigata dal carattere di Miss Catharine che con la sua solidità e la sua pacatezza è capace di trovare del buono in ogni situazione e un barlume di speranza anche nei momenti più duri.

Anche la cittadina di Beltroy viene toccata dal dolore, viene scossa dal male, ma niente è irreparabile, niente è irrisolvibile e quell’atmosfera soave, incantata che la caratterizza torna come quando torna il sereno dopo un brutto temporale estivo.

Col suo stile semplice e diretto Jane Rose Caruso ancor una volta ci “consegna” un testo godibile, delicato e scritto in modo consapevole e curato, che riflette perfettamente quello che si vede nel suo blog oltre che il suo stesso carattere, il suo gusto e i suoi interessi.

Oltre a “Rum e segreti” consiglio vivamente a tutti di leggere anche gli altri romanzi da lei pubblicati, in particolare a chi ama i libri che contengono che quella poesia che forse nel mondo moderno si è persa, per chi ama usare la fantasia anche attraverso la cucina e per chi vuole immergersi in pagine impreziosite da una prosa garbata e accattivante.

Libro : Rum & Segreti
Serie : Miss Garnette Catharine Book
Disponibile: Cartaceo e Ebook su Amazon 
Pagine: 268
Uscita: 15 Aprile 2019
Prezzo: € 9,99 (in offerta fino al 30 Aprile) poi passerà a € 12,00

TRAMA
Tutto sembra andare per il meglio, quando Miss Book riceve una terribile notizia, che la costringe a rientrare a Beltory prima del previsto. Mr Bell, il padre di Mary, la sarta, è morto e la ragazza è stata incolpata dell’omicidio. La poveretta si trova in guai seri e chiede l’aiuto di Miss Book, per dimostrare la sua innocenza. Un altro segreto da svelare per Miss Book, ma non il solo: anche il cuore di sua nipote Prudence è confuso, ma forse, grazie proprio a questa vicenda, anche la ragazza riscoprirà l’amore. Gli abitanti sono decisi, nel frattempo, a organizzare una grande festa per festeggiare l’amore in tutte le sue forme. Quale sarà l’ingrediente che stavolta servirà?

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Recensione “Head or heart” di Christina Perri


Ho conosciuto Christina Perri, come molti, attraverso la ballata “A thousand years”, parte della colonna sonora di Twilight, ma dopo, oltre a questa hit, ho scoperto un mondo musicale molto profondo, fatto di canzoni viscerali e sincere, dolci, delicate, a volte più incalzanti, a volte più cupe e riflessive, sicuramente tutte molto incisive e frutto di un animo sensibile oltre che di un enorme talento.
Alcune sono davvero catartiche e mi hanno “cullata” per un lungo periodo, facendomi compagnia per giornate e anche nottate intere.
Il secondo album della cantautrice italo-americana si intitola “Head or Heart” e proprio oggi “compie” cinque anni, per cui ho deciso di parlarne, visto che è anche uno dei miei dischi preferiti in assoluto.
“Head or Heart”, testa o cuore, è il dilemma che attanaglia qualsiasi essere umano nell’affrontare le decisioni o i bivi che gli si pongono davanti, nella sua vita, che abbiano a che fare con i sentimenti o meno.
Si parla molto di amore in questo lavoro: da quello nasce (si veda, o meglio si ascolti per questo la romanticissima “The words”, oppure la sognante “Sea of lovers”, in cui sembra davvero di fluttuare, come quando di è all’inizio di un nuovo amore e di cui mi hanno colpita questi versi molto raffinati: A certain type of darkness is stalling me/Under a quite mask of uncertainty/ I wait for light like water from the sky/ And I am lost again”), a quello che fa soffrire e lacera, a quello che rende sereni ed è, “l’ultimo amore”. Mi riferisco al ritmatissimo e allegro duetto con Ed Sheeran “Be my forever”.
Si parla tanto però, anche di consapevolezza di sé, dell’acquisizione della sicurezza e del coraggio per realizzare i propri sogni. “Burning gold”, infatti, racconta in qualche modo la storia della stessa Perri che ha lasciato Philadelphia per andare a Los Angeles in cerca di fortuna. Questa canzone dunque, diventa una sorta di inno per tutti coloro che seppur con timore decidono di rischiare e concretizzare i propri desideri.
“I believe” è uno di quei pezzi che non si possono catalogare come semplici canzoni.
In esso c’è tutto il cammino che un’anima può compiere: dal tormento, al sollievo, dalla caduta, dal buio alla luce della rinascita. Verità e intensità emergono dall’interpretazione della cantante che impreziosisce un testo pregno di significato.
In attesa di nuove composizioni che spero arrivino presto e che saranno sicuramente delle perle, vi lascio questi miei pensieri sul suo precedente lavoro e vi invito anche ad ascoltare anche “Songs for Carmella”, Cd che ha dedicato alla sua bambina con le canzoni che ama cantarle e in cui è contenuta una versione inedita di “A thousand years”, reinterpretata come se fosse una ninna nanna.

Di seguito trovate la traduzione della recensione.

I’ve known Christina Perri, as many of us, listening to the ballad “A thousand years”, from the soundtrack of Twilight, but afterward I’ve discovered a deep world that consist of genuine, visceral, sweet and tender songs, product of a sensitive soul and of a huge talent.

Her songs are  really cathartic and have “cradled me” for a long time, keeping me company through days and nights.

The second album of the Italian-American songwriter is called “Head or Heart” and today is its fifth birthday, so I’ve decided to talk about it, also because it is one of my favourite albums ever.

Use the head or the hear: every human being has this dilemma when faces important issues regarding love but not only.

This works talks a lot about love as I said: when love begins, for example in “the words” or in the dreamy “Sea of lovers” (I love these refined lines: “A certain type of darkness is stalling me/Under a quite mask of uncertainty/ I wait for light like water from the sky/ And I am lost again”), when he causes pain, or when it make someone happy (see “Be my forever” sung with Ed Sheeran”).

This album talks also a lot about self-consciousness, of strength and of the courage that it takes to realize our dreams. For example, “Burning gold” is some way the story of Christina who has left Philadelphia and has gone to Los Angeles to become a singer.

“I believe” isn’t simply a song because in this masterpiece there is the journey of soul: from the affliction to the solace, from the darkness of the fall to the light of the rebirth.

Truth and intensity emerge from the interpretation of the singer that refine the meaningful lyric.

Waiting for her new works, that will be certainly beautiful, I’ve written for you my thoughts about “Head or Heart” and I suggest you to listen to “Songs for Carmella”, the album dedicated to Christina’s daughter Carmella and that include “A thousand years”, reimagined as a lullaby.

Recensione delle spettacolo “Julian’s women” di Francesco Siggillino

Un rito radicato nella storia di un piccolo paese della Basilicata (il mio, per inciso), cinque donne diverse l’una dall’altra, ma legate dalla loro identità e dalla partecipazione fattiva al Maggio di san Giuliano che si svolge ad Accettura a partire dalla domenica di Pentecoste: questi sono i due elementi fondamentali di “Julian’s women”, lo spettacolo di Francesco Siggillino andato in scena il 1° marzo.

Poche parole, anzi pochissime, solo all’inizio per presentare, efficacemente, ma anche con tanta ironia, le “donne di Giuliano”, poi solo gesti, ricchi di significato a partire da uno dei momenti più commoventi della pièce quello in cui Erika, Madda, Antonietta, Antonietta ed Anna lasciano fuori il brusio della quotidianità per riaprire la scatola dei loro ricordi, ricca di oggetti cari, di tenerezza, di nostalgia (sottolineata dalla meravigliosa musica scelta dal regista), forse anche di rimpianto ma anche di amore e devozione per il patrono.

Tutti i momenti dei tre giorni di festa sono rivissuti con efficacia ed intensità e soprattutto sottolineando l’importanza del coinvolgimento femminile, tropo spesso trascurato a vantaggio della forza del ruolo maschile, sicuramente d’impatto, ma di certo non più importante. Si pensi all’allestimento delle “cende” (i caratteristici ceri votivi), alla preparazione del cibo per chi lavora concretamente allo svolgimento del culto arboreo i famigliari, gli amici, gli emigranti che ritornano appositamente per l’occasione, alla “vestizione” dei bambini col vestito del santo per arrivare poi, alla processione (una proiezione ci riporta al passato mentre le luci ci fanno tornare al presente, enfatizzando il fatto che il tempo passa, ma questa tradizione resta viva anche grazie alle giovani generazioni che devono assolutamente raccogliere il testimone dei più grandi e carpirne il sapere, ma anche lo spirito).

Francesco ci racconta dunque che le donne sono il cuore pulsante della celebrazione, sono forse più silenti dei maschi, ma fondamentali.

Proprio la mancanza di dialoghi aiuta nel dare importanza ai gesti, nel far comprendere al pubblico quanto siano pregni di valore e significato.

Scene più frizzanti di mescolano a scene più emozionanti, che inducono alla riflessione e questo ha conferito allo spettacolo un ritmo perfetto. L’attenzione del pubblico è stata catturata in modo abile ed infatti non è mai scemata.

Solo chi conosce bene quanto conti il Maggio nel nostro borgo poteva, grazie alle sue competenze e alla sua sensibilità artistica, costruire uno spettacolo tanto riuscito, capace non solo di dare allo spettatore una prospettiva nuova su un rituale ancora vitale e sentissimo, ma anche di raccontarlo in modo originale e chiaro.

Complimenti dunque al regista Siggillino, alle attrici, tutte del posto (Erika Urgo, Antonietta Palermo, Anna Defina, Maddalena De Rosa, Antonietta Fortuna affiancate dal piccolo Nicola Marino) e  bravissime nella loro interpretazione e speriamo che questo spettacolo posta essere replicato anche altrove.

“Dai tuoi occhi solamente” di Francesca Diotallevi (Neri Pozza, 2018)

“Dai tuoi occhi solamente

emana la luce che guida

i tuoi passi. Cammini

fra ciò che vedi. Soltanto”.

Dai suoi occhi e dall’obiettivo della sua Rolleiflex Vivian Maier, fotografa eccelsa e tormentata, riesce ad emanare quella luce che le esperienze della durata le hanno tolto fin troppo presto. Catturando le esistenze degli altri, guardandoli dall’esterno sia attraverso la macchina fotografica che attraverso il lavoro di bambinaia, riesce a fuggire da un passato che le ha lasciato ferite dolorosissime.

“La mia è la storia di chi ha vissuto attraverso le storie degli altri, di chi ha vissuto senza essere mai vista. La mia è la storia di un’ombra”, dice di sé.

Quest’ombra silenziosa, ritrosa e a volte dura, ha lasciato, però, un segno indelebile del suo passaggio in scatti nitidi, potenti, comunicativi, di sconcertante fascino.

Con rispetto, eleganza, poesia e partecipazione Francesca Diotallevi ci racconta, in chiave romanzata, le sue vicissitudini. La limpidezza dei suoi scatti rivive sulla pagina grazie alla prosa pulita e curatissima dell’autrice.

La sua scrittura armoniosa e “morbida”, capace in modo altrettanto efficace di rendere le spine che hanno punto la protagonista, ci trasporta con immediatezza nella narrazione e coinvolge emotivamente il lettore in modo fortissimo.

Attraverso l’alternanza di momenti del “presente” e di flashback, soprattutto direi attraverso questi ultimi che hanno un peso rilevante nel racconto, esattamente come lo hanno nella vita dell’artista, riusciamo ad avere il quadro completo della personalità complessa della Maier.

Molto interessante è il rapporto speculare tra Vivian e Frank Warren, papà dei bambini che la donna accudisce e scrittore mediocre in lotta con se stesso, alla ricerca di un’identità artistica e che ritrova nella sua tata un’anima affine. Le loro conversazioni permettono infatti di riflettere sul senso dall’arte, sulle sue molteplici sfaccettature e sul talento.

Jeanne l’amica della madre che l’ha ospitata per alcuni anni, le dice una frase, una sorta di augurio:

“Io mi auguro che tu sia sempre tormentata dalla curiosità. Guarda le cose che vedono tutti, ma guardale in modo diverso da come le vedono gli altri. E sii sempre fedele a te stessa”.

Occhi nuovi ed aperti sono effettivamente una delle qualità imprescindibili per un artista, oltre a delle doti latenti ed innate, gli occhi che Vivian aveva di sicuro e che le hanno permesso di produrre dei lavori meravigliosi.

“Dai tuoi occhi solamente” è un omaggio sentito, ma anche un romanzo che non si dimentica facilmente, che porta con sé la grandezza della letteratura di pregio.

Perdetevi dunque, come ho fatto io, in tutta questa bellezza e non dimenticate di guardare le spettacolari fotografie di Vivian Maier presenti sul sito http://www.vivianmaier.com/  .

Grazie di cuore a Valentina Ponzo che mi ha regalato questo scatto meraviglioso.

Un caffè (virtuale) con Alice Basso

Sono davvero orgogliosa e felice di pubblicare, oggi, l’intervista che Alice Basso, autrice di successo per Garzanti, nonché redattrice e traduttrice, ha accettato di concedermi.
I suoi romanzi, “L’imprevedibile caso della scrittrice nome”, “Scrivere è un mestiere pericoloso”, “Non ditelo allo scrittore”, “La scrittrice del mistero”, mi hanno sin da subito colpita per l’arguzia, l’originalità, il ritmo serrato, un uso sapiente della lingua e una caratterizzazione egregia dei personaggi, oltre che per l’amore totale per la letteratura che si evince in ogni pagina.
Ho cercato in questa intervista di soddisfare alcune mie curiosità, che forse sono anche quelle di altri lettori.
Spero anche di indurre chi ancora non conosce questa scrittrice e i suoi testi a rimediare subito perché non rimarrà affatto deluso.
Vi “consegno” ora le sue risposte, non prima però di aver ringraziato ancora una volta di cuore Alice per la sua disponibilità ed estrema simpatia.
Vi anticipo, inoltre, che all’inizio di maggio uscirà “L’ultimo caso della ghostwiter”, ahimè ultimo volume della serie di cui è protagonista Vani.
Speriamo, però, di non restare a lungo senza i romanzi di un’autrice tanto talentuosa.

1)      Henry Dark, il giallista che compare in “La scrittrice del mistero” sostiene, mentre progetta il suo libro con la ghostwriter Silvana Sarca, che prima vada costruito un personaggio forte, accattivante e che tutto il resto debba venire dopo. È d’accordo con questa affermazione? Ha “creato” prima Vani, che sicuramente è una figura affascinate ed originale, oppure ha pensato prima alla trama della saga?

Ah, cominciamo subito con una domanda bella tosta! Allora, deve sapere che, nel profondo del mio cuore, io sarei una fan delle belle trame, prima di ogni altra cosa. I gialli che sembrano dei perfetti meccanismi a orologeria, in cui tutto è concatenato ma lo vedi solo alla fine e a quel punto non puoi che restare a bocca aperta, folgorato, suscitano in me un’ammirazione che neanche le fan dei Beatles ai concerti degli anni Sessanta. Tuttavia, quello che dice Henry Dark, da un punto di vista pratico, commerciale, è vero: il protagonista è alla fin fine ciò che si ricorda di un libro, ciò che suscita identificazione, affetto, talvolta dipendenza. Io per esempio devo ammettere di fare molta fatica a ricordarmi anche solo una trama di un Montalbano, ma di essere perfettamente capace di fare un identikit del personaggio fino alle sue abitudini alimentari e al whisky che beve. E io stessa, quando mi sono messa a scrivere, ho scelto questa strada: prima definire il personaggio, poi le singole trame dei romanzi in cui l’avrei usato. Sebbene a monte di tutto ci sia stato in realtà un altro principio ancora: scrivere del mondo dell’editoria. Questa è stata la mia priorità.

2)      Vani dice che se fosse stata la protagonista di un libro sarebbe stata la protagonista di un libro non suo. Quale “protagonista di un libro non suo” le sarebbe piaciuto essere?

Ho detto che quella di prima era una domanda bella tosta? Mi correggo: QUESTA è una domanda bella tosta. Riflettiamo. be’, sa una cosa? Mi sono appena resa conto che i miei personaggi preferiti non solo non sono donne, ma hanno anche vicende sfortunatissime (uno su tutti: Cyrano de Bergerac), dunque non sono sicura di volermi mettere nei loro panni… Ecco, magari potrei regredire anagraficamente (che non dispiace mai) ed essere Alice nel Paese delle Meraviglie!

3)      Come riesce dal punto di vista stilistico a non far perdere brillantezza ad un personaggio così frizzante e dialetticamente potente come quello di Vani e in generale alla sua narrazione che è ironica e molto briosa?

Intanto: grazie, gentilissima! Be’, la speranza è proprio che il lettore si diverta, e devo dire che io per prima, quando scrivo, mi diverto molto. Visualizzo le scene, “ascolto” i dialoghi, e se mi fanno sorridere li scrivo, altrimenti li butto e ricomincio daccapo. Anche perché io, personalmente, sono abituata a scrivere solo dopo essermi fatta una scaletta molto molto dettagliata: così, quando viene il momento di sedermi alla tastiera, non devo perdere tempo a decidere cosa far fare ai personaggi, ma so già a che punto della trama sono e cosa voglio far succedere, e a quel punto tutto quello che ho da fare è, appunto, divertirmi a scrivere nel modo più brillante che posso.

4)      Uno dei volumi della pentalogia dedicata a Vani s’intitola “Scrivere è un mestiere pericoloso” e comincia con un magistrale excursus sul peso della carta e dei libri. Quanto pesa la parola scritta per lei? Scrivere è davvero un mestiere pericoloso?

Oddio, andare in miniera è un’altra cosa, ma i suoi rischi pure lo scrivere ce li ha, sì. Per esempio, quando scrivi metti nero su bianco qualcosa di molto personale (i tuoi valori, certe tue visioni delle cose e della vita, il tuo senso dell’umorismo, nel mio caso anche le citazioni esplicite di tutti i libri che ho letto e che mi sono piaciuti…); poi il libro smette di essere tuo, diventa del lettore, e il lettore ha tutto il diritto di criticarlo, se non gli è piaciuto. E questo non è sempre facile da accettare.

5)      Anche “La scrittrice del mistero” inizia con una riflessione sulla “carta” e sulla sincerità di quello che viene scritto. Per lei si può bluffare nello scrivere oppure lo scrittore dev’essere sempre sincero per arrivare al lettore?

Direi che se è sincero è più facile. Ciò non toglie che, come un attore non deve necessariamente sempre interpretare la stessa parte (anzi, è meglio se non lo fa, altrimenti diventa noioso e perde di abilità), anche uno scrittore possa e forse anche debba esplorare personaggi, modi di pensare e di agire, scenari eccetera, che non necessariamente condivide. In realtà è una situazione molto tipica, direi inevitabile: anche posto che uno scrittore inventi un personaggio che diventa portavoce delle sue idee e posizioni, questo sarà per forza contornato da comprimari che dovranno rappresentare anche posizioni di antagonismo o di complementarietà: e per renderli credibili ed efficaci è bene che lo scrittore impari a entrare un po’ anche nella loro testa, capirne le ragioni e i vissuti.

6)      Mi piace moltissimo, sia dal punto di vista narrativo che da quello “emotivo”, il rapporto che intercorre tra Vani, Morgana, la sua vicina di casa quindicenne ed Irma, ottuagenaria ed ex cuoca di un’importantissima famiglia torinese. Queste due donne rappresentano una sorta di specchio per Vani, quasi un modo per osservarsi a diversi stadi della vita. Com’è arrivata a costruire questo “triangolo”?

Ah, qui per me si è trattato proprio di vincere facile (come diceva quella pubblicità). Perché io Morgana e Irma le conosco. Dal vivo, intendo, in tridimensione, carne e ossa e chiacchiera. Morgana è la figlia di una mia amica, che io ho conosciuto quando aveva 11 anni e ora ne ha vent… uh, meglio non dirlo, che dolore. Durante l’adolescenza era esattamente come la Morgana di Vani: dark ma secchiona, anticonformista ma anche brava ragazza. Adorabile da ascoltare e osservare. Irma invece è una mia amica ottantatreenne con la quale esco spesso a mangiare. E anche lei è uno spasso da ascoltare: non hai che da sederti, proporle un argomento di conversazione qualsiasi – di attualità, di costume, o tratto dalla vita privata… – e poi goderti le sue opinioni in materia, che di solito sono dissacrantissime ed espresse benissimo. Sono fortunata, sono circondata da gente fantastica!

7)      Lei suona in un gruppo rock e ha scritto i testi di alcune canzoni. Che rapporto c’è tra la musica e la scrittura, soprattutto nella sua esperienza personale?

Al di là del fatto che la vita di band è divertentissima e ti mantiene giovane (tantopiù che una delle mie due band è tutta composta da ragazze più giovani di me in media di tredici anni, e questo sì che è grandioso incentivo a bere tanto, fare sport e fare il possibile per non sembrare la cariatide sul palco…), scrivere canzoni è superdivertente. E’ un tipo di scrittura tutta diversa da quella dei libri, piena di sfide e ostacoli, come la lunghezza, il metro, la pronuncia, e soprattutto il fatto che debba essere ben integrata alla musica. Quando immagino una scena, prima di scriverla, non è raro che abbia presente anche una sua possibile colonna sonora. Non credo però che la cosa derivi dal fatto che sono musicista: tanti colleghi scrittori affermano la stessa cosa senza necessariamente avere quel tipo di formazione. Probabilmente, ci è facile immaginare la vita con una colonna sonora di accompagnamento, come nei film!

8)      Quanto della personalità e del vissuto di uno scrittore emerge in un suo libro e quanto invece esso diventa “ghostwriter” lasciando spazio alla storia raccontata e ai personaggi?

Sono d’accordo con chi dice che un po’ dello scrittore nel libro, nei personaggi, c’è sempre, che insomma un libro è sempre almeno un po’ autobiografia; è anche vero però che ormai si ha l’abitudine di dare per scontato che un’opera, specialmente l’opera di un esordiente, non possa che parlare di lui. E devo dire che questo tipo di pregiudizio genera anche ricadute divertenti: nel mio caso, per esempio, tantissima gente che mi contatta o scrive resta stupefatta quando vede che rispondo tutta allegra e contenta, perché sotto sotto si sarebbe aspettata di trovarmi malmostosa e diffidente come Vani!

9)      Qual è stato il personaggio più complesso da caratterizzare oppure il momento narrativo più complesso da “gestire”?

L’evoluzione caratteriale di Vani, che parte chiusa peggio del caveau di una banca e poi pian pianino, nel corso della pentalogia, arriva ad accettare il fatto che alcuni esseri umani, seppur molto ben selezionati, non le facciano poi così schifo, anzi, possano addirittura con la loro presenza migliorare e arricchire la sua vita. Siccome il lato misantropo di Vani pare faccia molto ridere, farla aprire a queste considerazioni più, uhm, “altruiste” poteva rischiare di rammollire il personaggio, di renderlo melenso. E’ stato moooolto divertente calibrare il tutto, per esempio abbinando ad ogni apertura sentimentale di Vani una qualche battuta sarcastica che mettesse in chiaro che non avrebbe comunque mai perso la sua lingua tagliente!

10)  I suoi romanzi sono sicuramente una dichiarazione d’amore alla letteratura. Quando si è accorta della sua “vocazione” alla scrittura e al lavoro editoriale?

Ah, subito. Quando alle elementari la maestra (la mia era bravissima) iniziò a farci scrivere i “pensierini” (si chiamano ancora così?) e io mi resi conto che – oh mio Dio – a giustapporne due o più di due poteva venirne fuori una STORIA. Da quel momento ho sempre scritto come una forsennata, anche se tutto ciò che ho scritto fino al 2013 se ne resta ben chiuso in un cassetto (in verità un armadio) e, credetemi, non merita di uscire di lì!

“So che un giorno tornerai” di Luca Bianchini (Mondadori, 2018)

C’è un tempo per leggere e un tempo per recensire, un tempo per riflettere e un tempo per mettere nero su bianco i pensieri che spesso si affollano senza riuscire a trovare la giusta compiutezza.

Insomma, pur avendo letteralmente divorato, durante le vacanze natalizie il libro “So che un giorno tornerai” di Luca Bianchini (uno splendido regalo con una dedica dell’autore davvero azzeccata), solo ora riesco a raccontarvelo e a raccontarvi ciò che mi ha trasmesso.

Una delle protagoniste è Angela, bellissima e tormentata a causa dell’amore sbagliato per Pasquale “jeansinaro” già sposato, che le regala una figlia, Emma.

La piccola però cresce in qualche modo lontano dalla mamma, che si costruisce una vita altrove proprio per sfuggire al dolore di questo sentimento mai vissuto appieno, ma vicino a dei nonni e a degli zii che l’adorano e la riempiono di affetto e, soprattutto nei primi anni della sua vita, con il desiderio di essere un maschio proprio per riavere sua madre. Infatti il papà avrebbe riconosciuto il bimbo che Angela portava in grembo solo fosse stato un maschio. Invece è arrivata proprio lei, una meravigliosa bambina e suo padre ha abbandonato lei e la mamma, lasciando in entrambe un vuoto che ognuna colmerà a suo modo.

Diventata ormai un giovane donna ribelle, complessa, ma anche determinata, Emma cercherà di riallacciare il rapporto con questo genitore “evanescente”, ma presente nonostante la sua assenza e cercherà di far pace con il passato, ma anche di placare la sofferenza di Angela, che quel giovane calabrese non ha mai dimenticato fino in fondo.

Un alone di nostalgia e di tenerezza pervade le pagine di questo romanzo in cui però possiamo ritrovare anche una sottile ironia insieme alla spensieratezza e la giocosità tipiche della gioventù.

L’autore ci mostra con delicatezza, ma anche con profondità la forza e la tenacia non solo di un sentimento, ma di un sogno, di un ideale, insieme alla lotta interiore di chi costruisce sé stesso passo dopo passo e con difficoltà.

Il ruolo della famiglia, la maternità vissuti in modo molto diverso dalle figure femminili del libro sono altri temi che trovano spazio in questo testo, scritto in modo scorrevole, immediato, ma non si certo leggero.

È semplicissimo non solo immergersi nella lettura, ma anche farsi trascinare dalla narrazione, resa ancor più suggestiva dal fatto di essere ambientata in una città austera, ma vivace come Trieste.

Vi innamorerete di sicuro della genuinità e del calore dei Pipan (la famiglia di Angela), che sono anche i tratti distintivi di “Se un giorno tornerai, quelli che lo fanno sentire immediatamente vicino a chi legge.

Di sicuro io l’ho sentito vicino ai miei gusti di lettrice e alla mia personalità e leggerò con piacere altre opere di Luca Bianchini, che ho scoperto davvero solo ora, grazie al graditissimo dono di un’amica che, evidentemente, mi conosce bene.

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