Un libro e un caffè

"Leggere è sognare per mano altrui". Fernando Pessoa, Il libro dell'inquietudine.

Mese: febbraio 2019

“Quello che mi resta” di un memorabile lunedì sera!

La serata vissuta all’Auditorium Parco della musica, il 25 febbraio, con Ermal Meta e gli Gnu Quartet (Raffaele Rebaudengo, Francesca Rapetti, Roberto Izzo e Stefano Cabrera) è stata un vero sogno ad occhi aperti, durato troppo poco, purtroppo, perché la realtà quotidiana già è tornata a prendersi prepotentemente ed inesorabilmente la scena.

Per due ore, però, il mondo è stato chiuso fuori per lasciare spazio alla pura bellezza della loro arte.

In realtà non è facile trovare le parole tradurre qualcosa di impalpabile, che è stato scritto non con grafemi, ma con note e canzoni che si sono trasformate in emozioni fortissime. Certo è che nonostante la musica, ora che il momento dell’esecuzione è passato, risuoni in modo più flebile, solo nei ricordi, è ancora vivissimo ciò che essa ha suscitato.

L’apertura del concerto, è stata affidata a Cordio, accompagnato da Davorio e Matteo Fornasari.

Il cantautore siciliano ha proposto “La nostra vita”, “Il paradiso” e alcuni nuovi brani contenuti nel suo disco in uscita, che hanno confermato l’enorme potenziale di questo ragazzo nonché la profondità e la qualità delle sue “creazioni”.

Poi buio, atmosfera intima (nonostante le oltre duemila persone che la sala Santa Cecilia può contenere) e incanto.

Ha inizio una danza delicata di archi e flauto a cui si unisce il pianoforte per introdurre Voce del verbo. Questa canzone è già di per sé un dono per l’udito e per il cuore, ma la sua nuova veste la esalta. La sua ricchezza musicale, infatti, l’afflato lirico che la contraddistingue, la sua intensità risaltano ancora di più.

Dopo Lettera a mio padre, il ritmo e il registrano sono cambiati e il pubblico, sempre partecipe ed entusiasta, si è infiammato con Dall’alba al tramonto.

Intensissimo è stato il momento il momento in cui Piccola anima è stata prima intonata solo dagli spettatori per poi essere cantata e suonata per intero. Diventare la voce di un artista, anche se per qualche momento, ha un che di poetico.

Come in un ideale spartito si sono susseguite la melanconica 9 primavere, un’inedita Molto bene molto male, prima eseguita in modo lievissimo e poi con un incedere più cadenzato, alla sorpresa dell’immenso Antonello Venditti che ci ha regalato Roma capoccia e un discorso da maestro qual è (Ermal si è seduto sul palco ad ascoltarlo come un allievo ammirato e amorevole fa), il riuscitissimo e frizzante mash-up di Bob Marley e Billie Jean di Micheal Jackson, per arrivare gli splendidi pezzi del gruppo La fame di Camilla di cui Ermal era il frontman (particolarmente commovente è stata l’interpretazione di Sperare, in cui la delicatezza sonora, i giochi di luce e il battito del cuore simulato si intrecciano per creare un pathos e un’atmosfera indescrivibili).

Le cover (usare questo termine è riduttivo, lo so, perché sono reinterpretazioni sublimi) di Unintended dei Muse e Amara Terra mia di Modugno mettono quanto mai in risalto la voce del cantautore, potente, duttile, soave, ma fortissima. L’auditorium ha tremato e vibrato al suono dei suoi falsetti e dei suoi acuti.

Quello che ci resta, per citare un altro dei suoi capolavori, non è una solo una candela (mi si conceda la pessima battuta), ma una fiamma viva che arde di talento, di passione condivisa con altri musicisti eccelsi che hanno impreziosito il già pregiato repertorio di Meta.

Brividi e pelle d’oca mi hanno accompagnato per tutta la durata dell’evento e ancora adesso, la bolla di bellezza in cui sono stata catapultata non vuole scoppiare, ma forse è giusto che sia così. La nostra anima non può che trarre beneficio ed essere arricchita da tanta meraviglia.

Le canzoni… dopo Sanremo.

Il Festival di Sanremo si è concluso ieri sera. Per citare un cantante a me tanto caro “la musica è finita, ci restano solo le canzoni”. Adesso che il sipario sul Teatro Ariston è calato, cosa è rimasto e cosa rimarrà, secondo me, di ciò che abbiamo ascoltato in questi cinque giorni?

Per prima cosa vorrei spendere due parole sul brano vincitore: “Soldi” di Mahmood. Il pezzo è trascinante e moderno e la vocalità del giovane interessante e particolarissima. Ben venga, quindi una musica innovativa ed originale.

Detto questo ho trovato particolarmente degni di nota tre brani, che sicuramente mi accompagneranno ancora per molto tempo.

Il primo è “Argento vivo” di Daniele Silvestri. Inequivocabilmente attuale, è un pugno nello stomaco per chi si occupa di educazione e per tutti gli adulti, che dovrebbero riflettere bene ascoltandolo.

L’uso del rap e quindi del linguaggio musicale che in questo momento è forse il più vicino a quello giovanile, rafforza il ritratto di un sedicenne che si sente imprigionato e si trincera dietro un muro di incomunicabilità.

Il secondo è “Dov’è l’Italia” di Francesco Motta, che mi ha coinvolto ad ogni ascolto sempre di più. Il racconto di un marinaio che ha sentito alcuni migranti chiedersi dove fosse l’Italia ha fornito il pretesto al cantautore toscano per manifestare il senso di smarrimento, personale e collettivo, che in questo periodo storico è imperante. Solo l’amore e i sentimenti più autentici, probabilmente, possono fare da protezione e da antidoto a questo spaesamento.

“Perché nascosto sono stato quasi sempre/ Tra chi vince e chi perde/A carte scoperte

Mentre qualcuno mi guarda/ E qualcun altro mi consuma/ Per ogni vita immaginata

C’è la mia vita che sfuma/ E in un secondo penso a chi mi è stato accanto

In un pensiero lontano/ Ma nello stesso momento/ Tu su un tappeto volante

Tra chi vince e chi perde/ E chi non se la sente

Dov’è l’Italia amore mio?/ Mi sono perso/ Dov’è l’Italia amore mio?”

“Sono solo quattro accordi e un pugno di parole” dice Simone Cristicchi in “Abbi cura di me”, ma questa canzone è molto, molto di più. Sin dalla prima sera ho provato un’intensa commozione durante l’esibizione del “fabbricante di canzoni”. Anche solo dallo schermo i suoi occhi trasmettevano tutta l’emozione provata nell’interpretarla.

In pochi minuti e con una disarmante semplicità e autenticità sono riassunti dei messaggi fondamentali: la bellezza della vita, delle piccole cose che alla fine sono quelle essenziali, il coraggio di affidarsi all’altro, di manifestare la propria fragilità e di chiedere le cure di chi si ama.

“Il tempo ti cambia fuori, l’amore ti cambia dentro

Basta mettersi al fianco invece di stare al centro

L’amore è l’unica strada, è l’unico motore

È la scintilla divina che custodisci nel cuore

Tu non cercare la felicità semmai proteggila”

 

La musica di accompagnamento soave, ma solenne amplifica il potere evocativo di un testo vibrante di poesia.

“Ti immagini se cominciassimo a volare

Tra le montagne e il mare

Dimmi dove vorresti andare”

Si riesce a volare davvero con l’anima e con il cuore ascoltando “Abbi cura di me”.

L’attenzione a ciò che si narra attraverso la propria arte, alla qualità di quello che si propone è presente in tutti e tre gli artisti citati ed è ciò  che rende le loro composizioni pregevolissime a prescindere da qualsiasi classifica o premio.

“Dai tuoi occhi solamente” di Francesca Diotallevi (Neri Pozza, 2018)

“Dai tuoi occhi solamente

emana la luce che guida

i tuoi passi. Cammini

fra ciò che vedi. Soltanto”.

Dai suoi occhi e dall’obiettivo della sua Rolleiflex Vivian Maier, fotografa eccelsa e tormentata, riesce ad emanare quella luce che le esperienze della durata le hanno tolto fin troppo presto. Catturando le esistenze degli altri, guardandoli dall’esterno sia attraverso la macchina fotografica che attraverso il lavoro di bambinaia, riesce a fuggire da un passato che le ha lasciato ferite dolorosissime.

“La mia è la storia di chi ha vissuto attraverso le storie degli altri, di chi ha vissuto senza essere mai vista. La mia è la storia di un’ombra”, dice di sé.

Quest’ombra silenziosa, ritrosa e a volte dura, ha lasciato, però, un segno indelebile del suo passaggio in scatti nitidi, potenti, comunicativi, di sconcertante fascino.

Con rispetto, eleganza, poesia e partecipazione Francesca Diotallevi ci racconta, in chiave romanzata, le sue vicissitudini. La limpidezza dei suoi scatti rivive sulla pagina grazie alla prosa pulita e curatissima dell’autrice.

La sua scrittura armoniosa e “morbida”, capace in modo altrettanto efficace di rendere le spine che hanno punto la protagonista, ci trasporta con immediatezza nella narrazione e coinvolge emotivamente il lettore in modo fortissimo.

Attraverso l’alternanza di momenti del “presente” e di flashback, soprattutto direi attraverso questi ultimi che hanno un peso rilevante nel racconto, esattamente come lo hanno nella vita dell’artista, riusciamo ad avere il quadro completo della personalità complessa della Maier.

Molto interessante è il rapporto speculare tra Vivian e Frank Warren, papà dei bambini che la donna accudisce e scrittore mediocre in lotta con se stesso, alla ricerca di un’identità artistica e che ritrova nella sua tata un’anima affine. Le loro conversazioni permettono infatti di riflettere sul senso dall’arte, sulle sue molteplici sfaccettature e sul talento.

Jeanne l’amica della madre che l’ha ospitata per alcuni anni, le dice una frase, una sorta di augurio:

“Io mi auguro che tu sia sempre tormentata dalla curiosità. Guarda le cose che vedono tutti, ma guardale in modo diverso da come le vedono gli altri. E sii sempre fedele a te stessa”.

Occhi nuovi ed aperti sono effettivamente una delle qualità imprescindibili per un artista, oltre a delle doti latenti ed innate, gli occhi che Vivian aveva di sicuro e che le hanno permesso di produrre dei lavori meravigliosi.

“Dai tuoi occhi solamente” è un omaggio sentito, ma anche un romanzo che non si dimentica facilmente, che porta con sé la grandezza della letteratura di pregio.

Perdetevi dunque, come ho fatto io, in tutta questa bellezza e non dimenticate di guardare le spettacolari fotografie di Vivian Maier presenti sul sito http://www.vivianmaier.com/  .

Grazie di cuore a Valentina Ponzo che mi ha regalato questo scatto meraviglioso.

Un caffè (virtuale) con Alice Basso

Sono davvero orgogliosa e felice di pubblicare, oggi, l’intervista che Alice Basso, autrice di successo per Garzanti, nonché redattrice e traduttrice, ha accettato di concedermi.
I suoi romanzi, “L’imprevedibile caso della scrittrice nome”, “Scrivere è un mestiere pericoloso”, “Non ditelo allo scrittore”, “La scrittrice del mistero”, mi hanno sin da subito colpita per l’arguzia, l’originalità, il ritmo serrato, un uso sapiente della lingua e una caratterizzazione egregia dei personaggi, oltre che per l’amore totale per la letteratura che si evince in ogni pagina.
Ho cercato in questa intervista di soddisfare alcune mie curiosità, che forse sono anche quelle di altri lettori.
Spero anche di indurre chi ancora non conosce questa scrittrice e i suoi testi a rimediare subito perché non rimarrà affatto deluso.
Vi “consegno” ora le sue risposte, non prima però di aver ringraziato ancora una volta di cuore Alice per la sua disponibilità ed estrema simpatia.
Vi anticipo, inoltre, che all’inizio di maggio uscirà “L’ultimo caso della ghostwiter”, ahimè ultimo volume della serie di cui è protagonista Vani.
Speriamo, però, di non restare a lungo senza i romanzi di un’autrice tanto talentuosa.

1)      Henry Dark, il giallista che compare in “La scrittrice del mistero” sostiene, mentre progetta il suo libro con la ghostwriter Silvana Sarca, che prima vada costruito un personaggio forte, accattivante e che tutto il resto debba venire dopo. È d’accordo con questa affermazione? Ha “creato” prima Vani, che sicuramente è una figura affascinate ed originale, oppure ha pensato prima alla trama della saga?

Ah, cominciamo subito con una domanda bella tosta! Allora, deve sapere che, nel profondo del mio cuore, io sarei una fan delle belle trame, prima di ogni altra cosa. I gialli che sembrano dei perfetti meccanismi a orologeria, in cui tutto è concatenato ma lo vedi solo alla fine e a quel punto non puoi che restare a bocca aperta, folgorato, suscitano in me un’ammirazione che neanche le fan dei Beatles ai concerti degli anni Sessanta. Tuttavia, quello che dice Henry Dark, da un punto di vista pratico, commerciale, è vero: il protagonista è alla fin fine ciò che si ricorda di un libro, ciò che suscita identificazione, affetto, talvolta dipendenza. Io per esempio devo ammettere di fare molta fatica a ricordarmi anche solo una trama di un Montalbano, ma di essere perfettamente capace di fare un identikit del personaggio fino alle sue abitudini alimentari e al whisky che beve. E io stessa, quando mi sono messa a scrivere, ho scelto questa strada: prima definire il personaggio, poi le singole trame dei romanzi in cui l’avrei usato. Sebbene a monte di tutto ci sia stato in realtà un altro principio ancora: scrivere del mondo dell’editoria. Questa è stata la mia priorità.

2)      Vani dice che se fosse stata la protagonista di un libro sarebbe stata la protagonista di un libro non suo. Quale “protagonista di un libro non suo” le sarebbe piaciuto essere?

Ho detto che quella di prima era una domanda bella tosta? Mi correggo: QUESTA è una domanda bella tosta. Riflettiamo. be’, sa una cosa? Mi sono appena resa conto che i miei personaggi preferiti non solo non sono donne, ma hanno anche vicende sfortunatissime (uno su tutti: Cyrano de Bergerac), dunque non sono sicura di volermi mettere nei loro panni… Ecco, magari potrei regredire anagraficamente (che non dispiace mai) ed essere Alice nel Paese delle Meraviglie!

3)      Come riesce dal punto di vista stilistico a non far perdere brillantezza ad un personaggio così frizzante e dialetticamente potente come quello di Vani e in generale alla sua narrazione che è ironica e molto briosa?

Intanto: grazie, gentilissima! Be’, la speranza è proprio che il lettore si diverta, e devo dire che io per prima, quando scrivo, mi diverto molto. Visualizzo le scene, “ascolto” i dialoghi, e se mi fanno sorridere li scrivo, altrimenti li butto e ricomincio daccapo. Anche perché io, personalmente, sono abituata a scrivere solo dopo essermi fatta una scaletta molto molto dettagliata: così, quando viene il momento di sedermi alla tastiera, non devo perdere tempo a decidere cosa far fare ai personaggi, ma so già a che punto della trama sono e cosa voglio far succedere, e a quel punto tutto quello che ho da fare è, appunto, divertirmi a scrivere nel modo più brillante che posso.

4)      Uno dei volumi della pentalogia dedicata a Vani s’intitola “Scrivere è un mestiere pericoloso” e comincia con un magistrale excursus sul peso della carta e dei libri. Quanto pesa la parola scritta per lei? Scrivere è davvero un mestiere pericoloso?

Oddio, andare in miniera è un’altra cosa, ma i suoi rischi pure lo scrivere ce li ha, sì. Per esempio, quando scrivi metti nero su bianco qualcosa di molto personale (i tuoi valori, certe tue visioni delle cose e della vita, il tuo senso dell’umorismo, nel mio caso anche le citazioni esplicite di tutti i libri che ho letto e che mi sono piaciuti…); poi il libro smette di essere tuo, diventa del lettore, e il lettore ha tutto il diritto di criticarlo, se non gli è piaciuto. E questo non è sempre facile da accettare.

5)      Anche “La scrittrice del mistero” inizia con una riflessione sulla “carta” e sulla sincerità di quello che viene scritto. Per lei si può bluffare nello scrivere oppure lo scrittore dev’essere sempre sincero per arrivare al lettore?

Direi che se è sincero è più facile. Ciò non toglie che, come un attore non deve necessariamente sempre interpretare la stessa parte (anzi, è meglio se non lo fa, altrimenti diventa noioso e perde di abilità), anche uno scrittore possa e forse anche debba esplorare personaggi, modi di pensare e di agire, scenari eccetera, che non necessariamente condivide. In realtà è una situazione molto tipica, direi inevitabile: anche posto che uno scrittore inventi un personaggio che diventa portavoce delle sue idee e posizioni, questo sarà per forza contornato da comprimari che dovranno rappresentare anche posizioni di antagonismo o di complementarietà: e per renderli credibili ed efficaci è bene che lo scrittore impari a entrare un po’ anche nella loro testa, capirne le ragioni e i vissuti.

6)      Mi piace moltissimo, sia dal punto di vista narrativo che da quello “emotivo”, il rapporto che intercorre tra Vani, Morgana, la sua vicina di casa quindicenne ed Irma, ottuagenaria ed ex cuoca di un’importantissima famiglia torinese. Queste due donne rappresentano una sorta di specchio per Vani, quasi un modo per osservarsi a diversi stadi della vita. Com’è arrivata a costruire questo “triangolo”?

Ah, qui per me si è trattato proprio di vincere facile (come diceva quella pubblicità). Perché io Morgana e Irma le conosco. Dal vivo, intendo, in tridimensione, carne e ossa e chiacchiera. Morgana è la figlia di una mia amica, che io ho conosciuto quando aveva 11 anni e ora ne ha vent… uh, meglio non dirlo, che dolore. Durante l’adolescenza era esattamente come la Morgana di Vani: dark ma secchiona, anticonformista ma anche brava ragazza. Adorabile da ascoltare e osservare. Irma invece è una mia amica ottantatreenne con la quale esco spesso a mangiare. E anche lei è uno spasso da ascoltare: non hai che da sederti, proporle un argomento di conversazione qualsiasi – di attualità, di costume, o tratto dalla vita privata… – e poi goderti le sue opinioni in materia, che di solito sono dissacrantissime ed espresse benissimo. Sono fortunata, sono circondata da gente fantastica!

7)      Lei suona in un gruppo rock e ha scritto i testi di alcune canzoni. Che rapporto c’è tra la musica e la scrittura, soprattutto nella sua esperienza personale?

Al di là del fatto che la vita di band è divertentissima e ti mantiene giovane (tantopiù che una delle mie due band è tutta composta da ragazze più giovani di me in media di tredici anni, e questo sì che è grandioso incentivo a bere tanto, fare sport e fare il possibile per non sembrare la cariatide sul palco…), scrivere canzoni è superdivertente. E’ un tipo di scrittura tutta diversa da quella dei libri, piena di sfide e ostacoli, come la lunghezza, il metro, la pronuncia, e soprattutto il fatto che debba essere ben integrata alla musica. Quando immagino una scena, prima di scriverla, non è raro che abbia presente anche una sua possibile colonna sonora. Non credo però che la cosa derivi dal fatto che sono musicista: tanti colleghi scrittori affermano la stessa cosa senza necessariamente avere quel tipo di formazione. Probabilmente, ci è facile immaginare la vita con una colonna sonora di accompagnamento, come nei film!

8)      Quanto della personalità e del vissuto di uno scrittore emerge in un suo libro e quanto invece esso diventa “ghostwriter” lasciando spazio alla storia raccontata e ai personaggi?

Sono d’accordo con chi dice che un po’ dello scrittore nel libro, nei personaggi, c’è sempre, che insomma un libro è sempre almeno un po’ autobiografia; è anche vero però che ormai si ha l’abitudine di dare per scontato che un’opera, specialmente l’opera di un esordiente, non possa che parlare di lui. E devo dire che questo tipo di pregiudizio genera anche ricadute divertenti: nel mio caso, per esempio, tantissima gente che mi contatta o scrive resta stupefatta quando vede che rispondo tutta allegra e contenta, perché sotto sotto si sarebbe aspettata di trovarmi malmostosa e diffidente come Vani!

9)      Qual è stato il personaggio più complesso da caratterizzare oppure il momento narrativo più complesso da “gestire”?

L’evoluzione caratteriale di Vani, che parte chiusa peggio del caveau di una banca e poi pian pianino, nel corso della pentalogia, arriva ad accettare il fatto che alcuni esseri umani, seppur molto ben selezionati, non le facciano poi così schifo, anzi, possano addirittura con la loro presenza migliorare e arricchire la sua vita. Siccome il lato misantropo di Vani pare faccia molto ridere, farla aprire a queste considerazioni più, uhm, “altruiste” poteva rischiare di rammollire il personaggio, di renderlo melenso. E’ stato moooolto divertente calibrare il tutto, per esempio abbinando ad ogni apertura sentimentale di Vani una qualche battuta sarcastica che mettesse in chiaro che non avrebbe comunque mai perso la sua lingua tagliente!

10)  I suoi romanzi sono sicuramente una dichiarazione d’amore alla letteratura. Quando si è accorta della sua “vocazione” alla scrittura e al lavoro editoriale?

Ah, subito. Quando alle elementari la maestra (la mia era bravissima) iniziò a farci scrivere i “pensierini” (si chiamano ancora così?) e io mi resi conto che – oh mio Dio – a giustapporne due o più di due poteva venirne fuori una STORIA. Da quel momento ho sempre scritto come una forsennata, anche se tutto ciò che ho scritto fino al 2013 se ne resta ben chiuso in un cassetto (in verità un armadio) e, credetemi, non merita di uscire di lì!

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