“Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”. Questa frase, tanto semplice quanto profonda è perfetta per cominciare a descrivere “L’appello”. Omero Romeo è un professore di scienze, cieco, che ha ripreso ad insegnare dopo molto tempo. La sua è una classe difficile, formata da alunni ai quali bisogna “voler bene più d quanto se ne vogliano loro” e che devono affrontare la maturità. Omero ha un metodo tanto alternativo quanto efficace per riuscire a “vederli, per conoscerli e tentare di trasmettere loro qualcosa di significativo, non solo mere nozioni: fare ogni giorno l’appello chiedendo agli allievi di raccontare qualcosa di loro. Il nucleo centrale del testo è lo “scontro” tra due visioni della scuola: una classica, secondo la quale la scuola è canone e apprendimento delle discipline e una più innovativa, dove la relazione e il contatto (il tatto, che secondo l’autore e anche secondo me, si è perso nei rapporti, diventa un elemento fondamentale per capirsi e conoscersi). Un ruolo primario, nella narrazione, hanno anche le storie dei dieci allievi di Romeo e la vicenda personale del protagonista, che riesce a trasformare la sua sofferenza in bene e cerca in tutti i modi di far s che sia lo stesso per i componenti della sua classe.

L’argomento trattato da D’Avenia, con estrema poesia e verità, è quanto mai attuale. Certamente negli ultimi anni e negli ultimi tempi in particolare, si è visto un cambiamento delle relazioni educative, le nuove generazioni sempre più ci “sfidano” e ci chiedono a modo loro di trovare un sistema per entrare nel loro mondo, un mondo che a volte facciamo fatica a capire. Anche gli avvenimenti dell’anno che volge al termine e che hanno portato all’introduzione della didattica a distanza, hanno reso più che mai urgente un ragionamento sul rapporto che intercorre con i discenti e tra i discenti, a che tipo di contatto abbiamo con loro.

Ho parlato in prima persona perché questo libro rappresenta una chiamata all’appello anche per me, dato che insegno in una scuola media e mi trovo a vivere direttamente le problematiche e le sfide che questo “ruolo” comporta. Ho trovato questo scritto non solo coinvolgente, commovente e composto magnificamente (basti vedere le sezioni dedicate a Cesare, che usa la musica rap come valvola di sfogo per i suoi problemi). Il messaggio che sin dalla copertina si vuole dare è basilare: le vite e le menti dei nostri giovani sono preziose, delicate e. non vanno semplicemente “farcite” o bombardate con informazioni e dati. Chi insegna deve costantemente mettersi in gioco e far fiorire i propri alunni, permettergli di venire alla luce.

“Per riuscire ad insegnare devo concentrarmi sulla presenza dei se non sulle mie aspettative, devo lasciare che siano loro a venire alla luce e non io a illuminarli. Almeno ci devo provare”.

“Il contatto ci fa sapere chi siamo e chi non siamo, dove comunichiamo e dove finiamo […]. La vita è tutta una questione di tatto”.

“Troppi ragazzi si sentono invisibili allo sguardo di noi insegnanti, che abbiamo il compito di farli crescere anche negli aspetti non ancora emersi della loro personalità, soprattutto se, come vi ho detto, quegli aspetti, determinano quelli su cui crediamo di avere il controllo”.

Quelli sopracitati sono alcuni dei passi del romanzo che mi hanno colpita (nel vero senso della parola), che mi hanno portata non solo a leggerlo abbastanza speditamente perché non riuscivo a staccarmene, ma anche a trattenerne il suo peso emotivo.

Al centro di questo scritto infatti, c’è l’amore, un amore profondo, che non può non toccare l’anima e il cuore. Non è un caso che questo termine sia pronunciato tantissime volte, che aleggia tra le righe e che poi esploda nel finale.

Dopo aver letto “L’appello”, ho anche guardato lo spettacolo teatrale a cui l’autore stesso ha partecipato, altrettanto emozionante ed intenso: guardatelo, se riuscite, perché è una degna ’”estensione” delle parole.

Chi mi segue sa che amo la musica e questa volta voglio associare l’opera ad una canzone: “Argentovivo”, di Daniele Silvestri e Rancore, che ben si abbina a questo testo a mio parere.

Vorrei concludere questa recensione un po’ sui generis, dedicandola ai miei studenti, ai volti e alle anime che ho auto e ho di fronte. Faccio mie le parole usate da D’Avenia nei suoi ringraziamenti: “Mi hanno cambiato gli occhi, cambiandomi il cuore. Probabilmente non sono riuscito e non riesco sempre ad amarli come avrei voluto e a volte ho fallito, ma anche questo mi ha costretto ad aprire gli occhi sui miei limiti”.  Mi ritrovo in queste dichiarazioni e prometto, a loro e a me stessa, di fare sempre mio meglio per ascoltarli, accoglierli, trovare un contatto vero con loro e farli venire alla luce.