Un libro e un caffè

"Leggere è sognare per mano altrui". Fernando Pessoa, Il libro dell'inquietudine.

Mese: febbraio 2022

Tra musica e parole: cronistoria di un colpo di fulmine musicale e letterario.

“Ci sono giorni in cui le incertezze le sento sotto pelle. Ci sono giorni in cui mi sento schiacciato dalle insicurezze di questo maledetto periodo. A volte mi sento l’unico, ma so che non è così. Chissà come sarà il futuro, chissà come saremo diventati quando questa pandemia sarà andata via. Chissà…

Io aspetto e intanto scrivo. Parole, musica, paura, piccole felicità. Scrivo di me, scrivo di noi…”

Questo post di Ermal Meta, insieme ad un tweet in cui si chiedeva quale sua frase ritenessimo più poetica, ha “causato” la nascita del mio articolo. I termini “scrivo” e “parole” messi vicini mi hanno non solo fatto pensare al fatto che attendo con impazienza il suo libro veda la luce (ho da sempre pensato che le canzoni fossero troppo brevi per contenere tutto il mondo espressivo del cantautore e che la sua abilità narrativa vada al di là dei pochi minuti di un pezzo musicale), ma anche al passato e al fatto che, proprio lo straordinario modo di comporre versi e di creare immagini, mi abbia fatto “innamorare” dell’arte di Ermal. In effetti prima di rimanere incantata da Vietato morire e dalla magistrale interpretazione di Amara terra mia, che mi ha commossa profondamente, ero rimasta folgorata da un verso di “Odio le favole”: “il futuro era bellissimo per noi”. Un verbo al passato accostato, per mezzo di un geniale ossimoro, al sostantivo “futuro”; due parole, una perfetta sintesi che esprime speranza, ma anche rimpianto per qualcosa di incompiuto, che mi provoca un’emozione intensissima ad ogni ascolto. Adoro di questo pezzo anche l’ispirazione a Karen Blixen nella frase, di sudore di lacrime o mare, ci sembrava la cura di tutto il sale. Di grande impatto è poi l’immagine di quella sposa “dietro al suo velo”, di un viso che si nasconde in attesa della promessa di un avvenire felice. Il verso “cuore che si stringe non tradisce mai” è semplicemente da pelle d’oca per la sua intensità e la sua verità.

Ancor prima però di “Odio le favole”, però, ricordo che spesso, casualmente (ancora non seguivo Ermal assiduamente), su Radio Italia ascoltavo “Gravita con me”, che ad un certo punto recita: “Il tuo viso è di un bello isterico”. Anche qui due parole, per raccontare il raggiungimento di una singolare armonia, per rappresentare qualcosa di spigoloso che al tempo stesso risulta attraente: una descrizione limpida, netta ed efficacissima. Che dire poi di “c’è un vento gelido, atletico”! Un elemento immateriale rappresentato col gesto preciso e scattante di uno sportivo, estremamente concreto. Ogni volta che il pezzo passava, pensavo che chi lo avesse scritto fosse davvero, davvero bravo. E non avevo ancora ascoltato praticamente nulla.

Arriviamo al 2017. Guardo come tutti gli anni Sanremo e ad occhi chiusi ascolto “Vietato morire”. Ermal canta questo verso: “E la paura frantumava i pensieri che alle ossa ci pensavano gli altri”.

In quel momento, con orecchie ed anima in ascolto, ho sentito un pugno nello stomaco, un intenso coinvolgimento emotivo che poi mi avrebbe portata a seguirlo. Quelli che ho citato sono versi crudi, che diventano quasi onomatopea o metonimia e fanno sì che chi ascolta si immedesimi nella storia che la canzone racconta, visualizzandola e sentendola. La durezza poi si addolcisce col ritornello, che è apertura alla speranza e al coraggio di cambiare le cose. Non si poteva non amare profondamente questa canzone.

In “Bionda” il cantante dice: le mie mani e le tue mani sono leggerezza”: l’uso del sostantivo al posto dell’aggettivo cambia completamente il verso rendendolo efficace.

Un altro verso per me è particolarmente poetico, poi, ed è contenuto nel brano “Voodoo love”. Ermal scrive: “Ma tu c’eri sempre, seppellita nel mio domani come fossi un seme”. L’immagine del seme che piano piano dà vita a qualcosa, che si cela nel terreno per poi crescere con vigore, l’idea di trovare nell’avvenire ciò che in passato si cercava e che si è svelato però con lentezza è semplicemente un’immagine originalissima e anche intensissima dell’amore. Anche qui inoltra, c’è una sorta di citazione letteraria. Non si può no pensare a Shakespeare e a “Sogno di una notte di mezza estate, ascoltando “ ma l’amore non usa gli occhi”.

“Schegge” è una delle canzoni più introspettive di Ermal, nata dopo un incubo e dedicata alla musica. All’ascolto mi ha colpito molto la scelta di descrivere i pensieri come uno stagno. Anche in questo caso l’immagine lascia spiazzati perché uno stagno è uno spazio piccolo, quasi angusto, mentre i pensieri dovrebbero essere in un luogo ampio, che lascia libertà. A volte però in effetti i pensieri possono essere imprigionati e in attesa che qualcosa li lasci andare via, in questo caso la musica. Arrivare al concetto in modo non scontato è proprio quello che rende tanto pregevole il testo di questo brano (in genera dei brani di Ermal).

“Se ci fosse anche per una carezza per ogni mio errore”. Chi non ha sensi di colpa, chi non ha bisogno di perdonarsi e di essere perdonato, chi non ha bisogno di un gesto di tenerezza. Non può lasciare indifferenti, dunque,  una frase come quella presente in “Quello che ci resta”. “Il destino universale” è secondo me una piccola raccolta di racconti, con vari personaggi e vari punti di vista (come ho già detto nella mia recensione di “Tribù urbana”). Nel cuore mi è rimasta Marta, delicato e forte fiore tra le pietre, personaggio delineato in pochissime, struggenti e vivide battute. Potremmo anche dire che Ermal utilizzi il flusso di coscienza come tecnica narrativa, come in “Stelle cadenti” o anche in “Bob Marley”, ad esempio.

Potrei continuare ancora, ma termino con la canzone di Emal che amo di più e ha un titolo con un riferimento linguistico, si può dire: “Voce del verbo”. Dall’infinito di un verbo possono prendere simbolicamente vita i nostri pensieri e le nostre azioni, dall’abisso di un qualsiasi dolore si può arrivare a guardare le cose col giusto distacco e ritrovare la speranza.

“Camminare senza fretta, fare soltanto quello che spaventa, lasciarsi vivere perché è bellezza”.

Questa strofa del brano dimostra che le parole hanno un potere infinito, se utilizzata bene. Possono far male, possono dare coraggio, possono toccare l’intimo di ognuno di noi, possono mostrare angolature inedite del mondo ed Ermal è capace di questo con la sua scrittura, non solo nelle canzoni, ma anche nei due racconti che ha condiviso col pubblico e che ho adorato.

Non so in realtà, perché, ancora una volta abbia sentito l’esigenza di esternare i miei pensieri visto che ho sempre abbondantemente commentato ciò che Ermal scrive. Forse l’ho fatto perché dopo il post ho ritenuto che il fatto di sapere quanto il proprio talento sia apprezzato potesse essere confortante (lo so è un po’ troppo ambizioso come obiettivo), forse perché vivo di sensazioni, di idee e a volte sento la necessità di non tenere tutto dentro. Non so essere precisa, però spero che questo mio breve scritto possa piacere e possa essere piacevole da leggere e magari essere ben accolto da chi come me, ammira l’abilità letteraria del cantautore.

 

“La casa di Leyla” di Livaneli (Casa Editrice Altano, 2021)

Ormai penso che siate abituati alle mie lunghe assenze. Mi dispiace non scrivere di più e più spesso e soprattutto di non mantenere tutti i miei impegni in modo tempestivo. Bando alle ciance e alle scuse comunque, torno per parlarvi di un libro pubblicato dalla casa editrice Altano, “La casa di Leyla”, il secondo dei due testi che la redazione ha gentilmente deciso di inviarmi.

Scritto da una delle voci più influenti ed eclettiche voci della letteratura turca (Livanieli è anche musicista) il libro narra la storia di Leyla, anziana signora discendente da un’antica famiglia ottomana che viene costretta a lasciare il suo yali. Per giorni la donna resta fuori dallo yali in segno di protesta, ma alla fine viene convinta, dal giovane giornalista Yusuf, che l’aveva conosciuta quando era un bambino, ad andare a casa sua in attesa di trovare un posto in cui stabilirsi. Yusuf ha una compagna, Rukiye, una cantante rap ribelle che si fa chiamare Roxy, dal carattere complicato e spigoloso e con una storia estremamente complessa alle spalle.

Il costante intreccio tra le vicende private dei protagonisti e la storia della Turchia è uno degli elementi chiave della narrazione, quello che emerge immediatamente dalla lettura. L’equilibrio perfetto tra la narrazione fittizia e il dipanarsi delle vicende di questo affascinante Stato sicuramente è la dimostrazione della maestria dell’autore. Leyla simboleggia sicuramente il passaggio dall’antico al moderno, la sensazione di spaesamento che da questo può derivare, la difficoltà che si può averne nell’accettare i cambiamenti storici ed individuali e quest’opera è perfetta per assaporare profumi, le tradizioni e la cultura turca. Rappresenta pienamente quell’aura struggente, intensa e melanconica che da sempre accompagna questo affascinante Paese. Hüzun è la parola che viene in mente scorrendo soprattutto alcune pagine, pagine piene di descrizioni suggestive e di affascinanti ricostruzioni storiche. Non è però solo questo che colpisce del testo di Livanieli. Ognuno dei personaggi viene esplorato in tutte le sue peculiarità e contraddizioni. In particolare vorrei soffermarmi sulle due donne che sono il centro nevralgico della storia, a mio parere.

Leyla ha l’anima di un’artista, ha la capacità di rendere poetico il mondo con la sua grazia, col suo silenzio carico senso, con le sue parole ricche di grazia, col tocco delle sue dita sul pianoforte che riesce a rompere qualsiasi barriera. Molto interessante è l’evoluzione di Roxy che apre una finestra sulla tematica dell’immigrazione, anche di ritorno e sostiene una tanto dura quanto commovente lotta contro se stessa. La sua ricerca di un luogo “spirituale”, per così dire, in cui sentirsi pienamente compiuta, in cui non sentirsi sbagliata e trovare pace è avvincente ed estremamente vera. È il contrario del suo fidanzato, così idealista, puro ed accogliente, ma dietro la sua corazza si nasconde molto di più di ciò che mostra. La sua metamorfosi, la sua evoluzione è interessantissima.

Il viaggio che questo romanzo ci fa fare sul Bosforo, ma anche nei meandri della natura umana ha un valore inestimabile e consiglio di intraprenderlo a chiunque ami la profondità, andare metaforicamente altrove, in mondi e per strade lontane e tortuose, in cui il cammino è ricco di scoperte.

“365 giorni con te” di Anna Bells Campani e Raffaella DI Girolamo (Sperling & Kupfer, 2021)

Ogni viaggio ha un inizio e una fine ed è finito, almeno su carta (il cuore dei lettori non ha tempo però) anche il percorso della trilogia scritta da Anna e Raffaella, ispirata alla dizi Erkenci kus/ Daydreamer.

Finalmente l’indomito fotografo Can Divit e la dolce scrittrice Sanem Aydin hanno coronato il loro sogno d’amore e sono partiti per la luna di miele in barca. Mentre salpano verso un futuro finalmente felice e gettano le basi per la loro vita coniugale visitando splendidi angoli di mondo che diventeranno tappe simboliche per il loro cammino insieme, rivivono il passato, questa volta con lo sguardo privo di sofferenza. Ciò non vuol dire, però, che il racconto sia meno intenso o toccante. Come sempre la profondità, la capacità delle due autrici di trasmettere efficacemente e con un trasporto eccezionale la vera essenza dei personaggi, la loro perizia nel creare pathos, nel curare ogni singolo dettaglio e nel tessere le fila della narrazione, portano il lettore ad immergersi completamente nella lettura, anche emotivamente. La storia della dizi è di una bellezza pura, di una pulizia e di una dolcezza sconfinata e i romanzi, quest’ultimo capitolo soprattutto, riescono a trasporre in tutto e per tutto questa delicatezza.

Chi non consce le vicende di Can e Sanem, può tuffarsi per la prima volta in una stupenda love story infinitamente romantica e restare incantato dalla descrizione dei luoghi i due sposini si recano, ma soprattutto dalla descrizione dei loro sentimenti, dai loro pensieri così profondi e ricchi di sentimento.

Per chi ha visto la serie è piacevole “scoprire” quello che ancora non era mostrato e al tempo stesso ripercorre a ritroso i momenti che hanno contraddistinto nel bene e nel male. Sarà come riguardare un film emozionate come pochi, che non ci si stanca di riguardare e di cui si notano ogni volta sfumature e dettagli diversi.

La trilogia e in particolare questo ultimo volume, sono come un luogo incantevole in cui rifugiarsi quando si ha voglia di tenerezza e di positività, di dimenticare l’amarezza per un po’ di tempo e tornare al bello.

Gli scrittori si sa sanno usare le parole e con esse giocano, costruiscono, inventano, non tutti però riescono ad usarle per emozionare, per far bene all’anima. Anna e Raffaella invece colpiscono nel segno. Trasportano il lettore in un mondo da favola, fanno commuovere, fanno sorridere, fanno sperare che in mezzo al cinismo, all’aridità di sentimenti di questo periodo ci sia ancor un barlume di speranza.

E allora auguri ad Anna e Raffa, altre 1000 di queste pagine (so che stanno lavorando ad un nuovo progetto e non vedo l’ora di leggerlo) e 1000 ancora di omenti indimenticabili da regalare al loro pubblico. Il prossimo appuntamento, comunque sarà quello con il libro di Anna, “Come corde di chitarra”,  uscito l’8 febbraio, quindi, come si suol dire: stay tuned!

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