Un libro e un caffè

"Leggere è sognare per mano altrui". Fernando Pessoa, Il libro dell'inquietudine.

Categoria: Intermezzo musicale

“Tribù urbana” di Ermal Meta (Mescal, 2021)

Sono passati tre anni da “Non abbiamo armi” e mi sono interrogata spesso su come sarebbe stato il nuovo disco di Ermal Meta. Sapevo che avrebbe proposto qualcosa di nuovo, che avrebbe mostrato altre sfaccettature della sua arte, e in parte così è stato. Il sound, infatti, è leggermente diverso (c’è più elettronica) e lo sguardo, il serbatoio da cui attingere per le canzoni, è sempre profondo ma più ampio. Non è una novità la capacità di far vibrare le corde del cuore e non è una novità la capacità di narratore di Ermal. Lo so, sarà deformazione la mia, ma nei brani di “Tribù urbana” intravedo un romanzo in cui vengono cambiati spesso narratore e punto di vista.

A volte il cantautore racconta di sé, arrivando a parlare in prima persona, a volte cita dei nomi per raccontare storie particolari, altre volte racconta “il destino universale”. Proprio in questa canzone, una delle mie preferite dell’album, c’è il senso di questo lavoro.

Gira, gira sai com’è/ non gli importa dei perché/ sia nel bene che nel male/ tocca a te e pure a me/ gira, gira sai che c’è/ lo fa senza chiedere/ il destino universale/ tocca a te e pure a me

Yusuf, Marta, Marco, Tommaso, Ermal, citati nel brano, hanno vite diverse, ma accomunate dal fatto che hanno un destino simile: ognuno di loro (e di noi) lotta per sopravvivere, perché “la vita è importante”.

I versi dedicati a Marta mi hanno commossa particolarmente. Lei è paragonata ad un fiore tra le pietre e immediatamente ho pensato alla Ginestra di leopardiana memoria, un fiore che resite in condizioni difficilissime.

 

Quello dell’unione è un concetto che torna anche in “Uno”, l’interludio, il pezzo candidato ad aprire i prossimi live. In effetti, voci che cantano all’unisono e mani che muovono l’aria fanno pensare ad uno “spazio” in cui condividere e sentirsi uniti nel nome di una passione (la musica), ossia un concerto.

 

Non bastano le mani”, pugno fortissimo nello stomaco, sembra una pagina di diario, quella in cui si scrivono le parole più intime, nella quale ci si mette a nudo, con dolore ma con coraggio e verità. Il brano si apre con l’intro della versione alternativa di “Vietato morire” e non è casuale. È uno dei momenti in cui Ermal ci permette di vedere la sua anima in controluce.

“Non parlo mai di me, non dico mai tutte le cose/ ci sono melodie difficili da intonare

non parlo mai di me che poi mi torna tutto su/ e di parlare poi/ non ce la faccio più/ non ce la faccio più”.

 

Delicata e potente è “Nina e Sara”, che racconta l’amore tra due donne negli anni ‘80, negato dalle convenzioni. Il pezzo ha una decisa impostazione cinematografica (ci sono immagini nitidissime che sembrano inquadrature, ed ascoltandola ho pensato al trailer di “Io non ho paura” di Gabriele Salvatores), ma potrebbe essere tranquillamente un racconto.

 

Ermal riesce ad affrontare una tematica complessa con grazia e forza come in “Gli invisibili”, canzone intensissima.

“Siamo gli ultimi di questa lunga fila/ siamo quelli che ci manca ancora una salita/ quelli che vedi quasi sempre sullo sfondo/ siamo gli invisibili che salveranno il mondo”.

La dedica agli “ultimi” lascia emozionalmente disarmati, è bellezza pura che fa bene all’anima. Empatia è il termine al quale penso ascoltando questo brano.

 

No satisfaction” è il ritratto schietto e non edulcorato della realtà contemporanea, è il brano più radiofonico e ritmato.

 

Stelle cadenti” all’ascolto mi ha dato l’impressione di un flusso di coscienza, di una confessione e una richiesta d’affetto fatta in un momento in cui il protagonista ha “bevuto troppo”, come si legge nel testo.

“Dimmi che mi vuoi bene/ anche se non ci credi/ dimmi che mi vuoi bene finché resto ancora in piedi/ dimmi che vuoi partire/ prestami dei ricordi/ dimmi che mi vuoi bene sempre più di tutti gli altri”.

 

Non manca lo spazio per il romanticismo, come in “Un milione di cose da dirti”, che ha portato Ermal sul podio del settantunesimo Festival di Sanremo. Ermal l’ha definita una semplice canzone d’amore, ma parlare d’amore senza risultare banali e ripetitivi, però, non è affatto semplice.

Non c’è niente di scontato nell’immagine di un sentimento che permette di farsi carico del “peso” dell’altro, di prenderlo sulle spalle e di aiutarlo a volare. Chi ama davvero fa questo: alleggerisce e rende libero l’altro. Vorrei anche evidenziare il parallelismo con la meravigliosa “Voce del verbo” che recita: “se non sai cosa dire, tu non dire niente”, a riprova del fatto che nella “narrativa” di Ermal ci sono immagini ricorrenti e che ci descrivono il suo mondo.

Anche “Un po’ di pace” è romantica, morbida e d’atmosfera. Immagino di ascoltarla dal vivo in un teatro con luci quasi spente e i ricordi accesi.

Avrei un altro milione di cose da scrivere, ma è meglio lasciar parlare le note e le parole di “Tribù urbana”, un lavoro sicuramente poco “popolare”, molto cantautorale, che avrà molto da dire a chi lo ascolterà.

“Che vita meravigliosa” di Diodato (Carosello Records, 2020)

Probabilmente è vero che alcune canzoni e alcuni artisti arrivano al momento giusto, quando ciò che hanno da dire parla davvero al cuore e probabilmente è per questo che, pur avendo sempre apprezzato il talento di Diodato, solo ora esso ha completamente catturato la mia attenzione e ottenuto la mia ammirazione più sincera. Forse bisogna avere la giusta maturità per capire la bellezza e l’arte pura, ma ora questa bellezza e quest’arte sono ben visibili e comprensibili. L’ultimo album del cantautore tarantino è un concentrato di meraviglia, la faticosa meraviglia derivante dal fatto di essere umani, di provare emozioni contrastanti, del fare i conti con sé stessi e con la realtà circostante. Già nella copertina tutto questo viene riassunto perfettamente: un uomo assorto, in solitudine col mondo davanti, uno specchio d’acqua nel quale riflettersi e vedere il riflesso delle cose. La “title track” è una travolgente, coinvolgente, festosa e al tempo stesso malinconica celebrazione di quel mare tempestoso e pieno di energia (positiva e negativa) che può essere l’esistenza.

Gli undici componimenti presenti nel disco sono tutti degni di nota, un intreccio di musica di gran qualità e parole di una sincerità spiazzante in cui è impossibile non identificarsi in qualche modo.

“Fai rumore”, il brano che ha vinto il settantesimo Festival di Sanremo ha colpito profondamente me e tanti altri perché evidentemente ha dato voce a un sentimento comune, quel bisogno di sentire il rumore delle persone a cui vogliamo bene, anche se si sono allontanate, anche se sono diventate un’assenza comunque presente e anche se non sempre si ha il coraggio di esternare le proprie emozioni.

“Fino a farci scomparire” è lo struggente resoconto della fine di un amore, ma anche l’ammissione che nonostante il tempo lenisca la sofferenza e faccia sì che si vada avanti, non laverà fino in fondo via le tracce del sentimento che c’è stato. Altrettanto dolente seppur nella sua dolcezza disarmante è “Quello che mi manca di te”, quasi un sussurro intriso di nostalgia e di affetto, di quell’affetto viscerale che proviene dalla condivisione delle cose piccole, ma belle di tutti i giorni.

“La lascio a voi questa domenica” e “Alveari” a mio avviso sono sue facce della stessa medaglia. In entrambe, con dei punti di vista diversi Diodato affronta un tema importante, il rapporto tra il proprio microcosmo e quello che avviene intorno a noi. In “Alveari” in particolare mi sembra venga asserita l’importanza non solo dell’apertura verso mondo e verso altri, ma anche verso se stessi. In quest’ottica anche gli errori servono per ritrovarsi e ricordarsi le cose essenziali.

 

Ma io che parlo a fare/ che sono come te/ che fingo di capire/ e poi non so capire/io che parlo a fare che proprio come te mi perdo in questo niente chiuso in un alveare/ Per poi cadere un giorno/ cadere un giorno e ricordarsi che è tutto così fragile/ un equilibrio facile da perdere/ ma cadere non è inutile/ cadere non è inutile cadere è ritrovarsi/ ricordarsi di nuovo/ dell’essenziale invisibile dell’essenziale invisibile

 

“E allora faccio così” con ritmo ed orecchiabilità parla della depressione, ma anche del desiderio di rinascere. Il ritornello è gioioso e liberatorio ed è impossibile non ballare e canticchiare questo brano, esattamente come “Non ti amo più” e “Cretino che sei”, spietate, se vogliamo, ma strepitosamente coinvolgenti.

“Il commerciante” è una lucida analisi della società odierna, una società in cui la competenza e la passione sembrano avere sempre meno valore, soppiantati dall’impersonalità e dalla massificazione.

Ho lasciato per ultima “Solo”, che è un pezzo commovente, autentico, di un’intensità devastante. Non è semplice secondo me, accostarsi ad argomenti così intimi e complessi, ma Diodato riesce anche a parlarci di solitudini in modo realistico, ma con la poesia che contraddistingue i veri artisti.

So che parlare di musica non rende quello che la musica riesca a dare, per cui posso solo concludere dicendo che questo disco fa davvero bene all’anima, per cui fatevi un regalo e ascoltatelo.

 

“Guardare per aria” di Bianco (INRI, 2015)

Se dovessi definire in qualche modo Alberto Bianco, lo definirei un cantautore impressionista. I pittori impressionisti dipingevano “en plein air”, il cantante “guardando per aria” ha provato con delicatezza, con contorni delicati, quasi sfumati, ma senza trascurare la nitidezza e la chiarezza, a dipingere l’immenso che può trovarsi in un cuore, in un’anima e in una vita, in apparenza “spazi” chiusi e limitati, in realtà aperti e potenzialmente “contenitori d’infinto”.

Nelle canzoni dell’album che ho ascoltato ho riscontrato un tratto leggero, nella scrittura e nel sound, introspezione e abilità di comporre immagini evocative, ma mai troppo concettuali, anzi in alcuni momenti la sensorialità trapela dalle immagini scelte per la composizione (il profumo dei gerani il verde delle betulle e del bosco in generale, ad esempio).

Ascoltando i brani si percepisce una sensibilità spiccata e non così scontata, anche se dovrebbe essere una qualità imprescindibile per un artista. A volte però questa capacità di sentire e di trasmettere quello che si sente è filtrata, come se si volesse dare, ma non tutto. Invece ascoltando le canzoni di Bianco si percepisce un’apertura totale e una grande sincerità, un’abilità particolare nel maneggiare le parole per trasmettere i moti dell’animo e di essere empatico.

“Resto da solo/ penso ai ricordi/con mio nonno sul mare/ In quella casa/ su quel balcone/ che sa di geranio/ In un cortile/ fra dieci anni/ o su un albero” “La felicità/ è un drago fatto di/ gesti piccoli/ ma così piccoli/ quasi invisibili”.

È impossibile non sentirsi toccati da questi versi, è impossibile non provare la sensazione di aver in qualche modo vissuto o provato le stesse cose.

“Il futuro come la pelle cambia colore quando è vacanza/ poi torna settembre macchiato, secco e cadente/ Come una farfalla tu muovi l’aria di questa stanza/ io vedo le tue parole chiare di chi sa già cosa fare/ tu che colori anche la mia ombra/ ed io con il cuore che pesa più della testa”.

Queste righe tratte da Aeroplano ci restituiscono una dichiarazione d’amore bellissima, ma anche un’esternazione molto personale e intima, se vogliamo.

Insomma l’io del cantautore viene offerto a chi ascolta in modo totale e chi è altrettanto aperto e disposto ad accoglierlo, ma soprattutto a ritrovare il proprio io in un brano, non potrà che apprezzare le composizioni di Bianco.

Recensione “Head or heart” di Christina Perri


Ho conosciuto Christina Perri, come molti, attraverso la ballata “A thousand years”, parte della colonna sonora di Twilight, ma dopo, oltre a questa hit, ho scoperto un mondo musicale molto profondo, fatto di canzoni viscerali e sincere, dolci, delicate, a volte più incalzanti, a volte più cupe e riflessive, sicuramente tutte molto incisive e frutto di un animo sensibile oltre che di un enorme talento.
Alcune sono davvero catartiche e mi hanno “cullata” per un lungo periodo, facendomi compagnia per giornate e anche nottate intere.
Il secondo album della cantautrice italo-americana si intitola “Head or Heart” e proprio oggi “compie” cinque anni, per cui ho deciso di parlarne, visto che è anche uno dei miei dischi preferiti in assoluto.
“Head or Heart”, testa o cuore, è il dilemma che attanaglia qualsiasi essere umano nell’affrontare le decisioni o i bivi che gli si pongono davanti, nella sua vita, che abbiano a che fare con i sentimenti o meno.
Si parla molto di amore in questo lavoro: da quello nasce (si veda, o meglio si ascolti per questo la romanticissima “The words”, oppure la sognante “Sea of lovers”, in cui sembra davvero di fluttuare, come quando di è all’inizio di un nuovo amore e di cui mi hanno colpita questi versi molto raffinati: A certain type of darkness is stalling me/Under a quite mask of uncertainty/ I wait for light like water from the sky/ And I am lost again”), a quello che fa soffrire e lacera, a quello che rende sereni ed è, “l’ultimo amore”. Mi riferisco al ritmatissimo e allegro duetto con Ed Sheeran “Be my forever”.
Si parla tanto però, anche di consapevolezza di sé, dell’acquisizione della sicurezza e del coraggio per realizzare i propri sogni. “Burning gold”, infatti, racconta in qualche modo la storia della stessa Perri che ha lasciato Philadelphia per andare a Los Angeles in cerca di fortuna. Questa canzone dunque, diventa una sorta di inno per tutti coloro che seppur con timore decidono di rischiare e concretizzare i propri desideri.
“I believe” è uno di quei pezzi che non si possono catalogare come semplici canzoni.
In esso c’è tutto il cammino che un’anima può compiere: dal tormento, al sollievo, dalla caduta, dal buio alla luce della rinascita. Verità e intensità emergono dall’interpretazione della cantante che impreziosisce un testo pregno di significato.
In attesa di nuove composizioni che spero arrivino presto e che saranno sicuramente delle perle, vi lascio questi miei pensieri sul suo precedente lavoro e vi invito anche ad ascoltare anche “Songs for Carmella”, Cd che ha dedicato alla sua bambina con le canzoni che ama cantarle e in cui è contenuta una versione inedita di “A thousand years”, reinterpretata come se fosse una ninna nanna.

Di seguito trovate la traduzione della recensione.

I’ve known Christina Perri, as many of us, listening to the ballad “A thousand years”, from the soundtrack of Twilight, but afterward I’ve discovered a deep world that consist of genuine, visceral, sweet and tender songs, product of a sensitive soul and of a huge talent.

Her songs are  really cathartic and have “cradled me” for a long time, keeping me company through days and nights.

The second album of the Italian-American songwriter is called “Head or Heart” and today is its fifth birthday, so I’ve decided to talk about it, also because it is one of my favourite albums ever.

Use the head or the hear: every human being has this dilemma when faces important issues regarding love but not only.

This works talks a lot about love as I said: when love begins, for example in “the words” or in the dreamy “Sea of lovers” (I love these refined lines: “A certain type of darkness is stalling me/Under a quite mask of uncertainty/ I wait for light like water from the sky/ And I am lost again”), when he causes pain, or when it make someone happy (see “Be my forever” sung with Ed Sheeran”).

This album talks also a lot about self-consciousness, of strength and of the courage that it takes to realize our dreams. For example, “Burning gold” is some way the story of Christina who has left Philadelphia and has gone to Los Angeles to become a singer.

“I believe” isn’t simply a song because in this masterpiece there is the journey of soul: from the affliction to the solace, from the darkness of the fall to the light of the rebirth.

Truth and intensity emerge from the interpretation of the singer that refine the meaningful lyric.

Waiting for her new works, that will be certainly beautiful, I’ve written for you my thoughts about “Head or Heart” and I suggest you to listen to “Songs for Carmella”, the album dedicated to Christina’s daughter Carmella and that include “A thousand years”, reimagined as a lullaby.

Recensione dell’album “Vivi per sempre” dei Canova (Maciste dischi, 2019)

 

Tardo pomeriggio, una chiacchiera tra amiche e ti ritrovi a scoprire un gruppo molto interessante: i Canova.

Ascoltando le nove tracce del loro album, “Vivi per sempre” si notano immediatamente il sound, moderno, fresco, ma con un tocco vintage che io adoro, e un’atmosfera quasi ovattata da giornata uggiosa che un po’ rende melanconici, ma al tempo stesso tempo riscalda e permette di raccogliersi in sé stessi.

In effetti sono canzoni introspettive, quelle dei Canova, anche se con suoni “leggeri” e un bel ritmo.

I testi sono estremamente curati e raffinati, con un’attenzione notevole alla lingua e al suo effetto evocativo, cosa che è sempre apprezzabile se si vuole fare musica di qualità. Ritengo, soprattutto da quando ho avuto modo di conoscere di più il cantautorato italiano, che ad una musica accattivante si debbano unire parole che comunichino davvero qualcosa e il gruppo di milanese riesce indubbiamente a farlo, arrivando a toccare emotivamente chi ascolta.

 

“Dimmi come si fa a guardarti negli occhi

Senza che siano assenti ma così non è

Dimmi come si fa a guardarti negli occhi

Senza arrendersi”

 

L’uso dell’immagine degli sguardi per descrivere la difficoltà o la fine di una relazione è estremamente riuscita, a mio avviso, e Per te è sicuramente uno dei pezzi più belli del disco.

Il dubbio, l’incertezza personale o di coppia è uno dei nuclei tematici principali di questo lavoro, declinato con storie diverse unite da questo filo conduttore.

Un altro soggetto che ho riscontrato è quello della ricerca di sé, della fuga per poter ritrovare la propria essenza (da soli o con una persona al proprio fianco).

 

Quanto ti pesa l’anima

Non lo riesci a capire

E sono stato lontano

Bevuto, caduto

Mi sono rialzato

Guarda come mi hanno rianimato

Sono tornato

 

La canzone che più mi ha colpita, anzi devo dire che mi ha commossa, è Shakespeare e non solo perché adoro il Bardo, quindi qualsiasi riferimento a lui mi conquista immediatamente, ma per quella vena nostalgica che pervade il brano, per l’acuta descrizione di quell’impercettibile graffio che si sente quando si guarda al passato e alla purezza dell’infanzia che da adulti si perde.

Vi lascio di seguito il testo integrale, non prima di avervi ovviamente consigliato l’ascolto di “Vivi per sempre” e di aver fatto un’ulteriore riflessione sul fatto che la musica italiana sta vivendo un periodo di notevole vivacità soprattutto grazie a giovani (solisti o gruppi) che fanno sfoggio di un talento davvero notevole.

 

Quand’ero piccolo giocavo da solo

Quand’ero solo giocavo al mare

E mi vedevo realizzare

Quand’ero piccolo giocavo a palla

E la vedevo sopra ogni suolo

Con la rincorsa di ogni uomo

E guardavo le onde del mare

Le vedevo correre e girare

Dicevo sono io tutto quello che sono, posso volare

Dicevo sono io col vento addosso, posso volare

La la la la

Quand’ero piccolo volevo bene a tutti

Salutavo con la mano da lontano

Indicavo tutti gli sconosciuti

E una scarpa persa per strada

E non so più se è solo malinconia

Ho visto un uomo passare

L’aveva negli occhi, sembrava la mia

Gliel’ho portata via

“Quello che mi resta” di un memorabile lunedì sera!

La serata vissuta all’Auditorium Parco della musica, il 25 febbraio, con Ermal Meta e gli Gnu Quartet (Raffaele Rebaudengo, Francesca Rapetti, Roberto Izzo e Stefano Cabrera) è stata un vero sogno ad occhi aperti, durato troppo poco, purtroppo, perché la realtà quotidiana già è tornata a prendersi prepotentemente ed inesorabilmente la scena.

Per due ore, però, il mondo è stato chiuso fuori per lasciare spazio alla pura bellezza della loro arte.

In realtà non è facile trovare le parole tradurre qualcosa di impalpabile, che è stato scritto non con grafemi, ma con note e canzoni che si sono trasformate in emozioni fortissime. Certo è che nonostante la musica, ora che il momento dell’esecuzione è passato, risuoni in modo più flebile, solo nei ricordi, è ancora vivissimo ciò che essa ha suscitato.

L’apertura del concerto, è stata affidata a Cordio, accompagnato da Davorio e Matteo Fornasari.

Il cantautore siciliano ha proposto “La nostra vita”, “Il paradiso” e alcuni nuovi brani contenuti nel suo disco in uscita, che hanno confermato l’enorme potenziale di questo ragazzo nonché la profondità e la qualità delle sue “creazioni”.

Poi buio, atmosfera intima (nonostante le oltre duemila persone che la sala Santa Cecilia può contenere) e incanto.

Ha inizio una danza delicata di archi e flauto a cui si unisce il pianoforte per introdurre Voce del verbo. Questa canzone è già di per sé un dono per l’udito e per il cuore, ma la sua nuova veste la esalta. La sua ricchezza musicale, infatti, l’afflato lirico che la contraddistingue, la sua intensità risaltano ancora di più.

Dopo Lettera a mio padre, il ritmo e il registrano sono cambiati e il pubblico, sempre partecipe ed entusiasta, si è infiammato con Dall’alba al tramonto.

Intensissimo è stato il momento il momento in cui Piccola anima è stata prima intonata solo dagli spettatori per poi essere cantata e suonata per intero. Diventare la voce di un artista, anche se per qualche momento, ha un che di poetico.

Come in un ideale spartito si sono susseguite la melanconica 9 primavere, un’inedita Molto bene molto male, prima eseguita in modo lievissimo e poi con un incedere più cadenzato, alla sorpresa dell’immenso Antonello Venditti che ci ha regalato Roma capoccia e un discorso da maestro qual è (Ermal si è seduto sul palco ad ascoltarlo come un allievo ammirato e amorevole fa), il riuscitissimo e frizzante mash-up di Bob Marley e Billie Jean di Micheal Jackson, per arrivare gli splendidi pezzi del gruppo La fame di Camilla di cui Ermal era il frontman (particolarmente commovente è stata l’interpretazione di Sperare, in cui la delicatezza sonora, i giochi di luce e il battito del cuore simulato si intrecciano per creare un pathos e un’atmosfera indescrivibili).

Le cover (usare questo termine è riduttivo, lo so, perché sono reinterpretazioni sublimi) di Unintended dei Muse e Amara Terra mia di Modugno mettono quanto mai in risalto la voce del cantautore, potente, duttile, soave, ma fortissima. L’auditorium ha tremato e vibrato al suono dei suoi falsetti e dei suoi acuti.

Quello che ci resta, per citare un altro dei suoi capolavori, non è una solo una candela (mi si conceda la pessima battuta), ma una fiamma viva che arde di talento, di passione condivisa con altri musicisti eccelsi che hanno impreziosito il già pregiato repertorio di Meta.

Brividi e pelle d’oca mi hanno accompagnato per tutta la durata dell’evento e ancora adesso, la bolla di bellezza in cui sono stata catapultata non vuole scoppiare, ma forse è giusto che sia così. La nostra anima non può che trarre beneficio ed essere arricchita da tanta meraviglia.

Le canzoni… dopo Sanremo.

Il Festival di Sanremo si è concluso ieri sera. Per citare un cantante a me tanto caro “la musica è finita, ci restano solo le canzoni”. Adesso che il sipario sul Teatro Ariston è calato, cosa è rimasto e cosa rimarrà, secondo me, di ciò che abbiamo ascoltato in questi cinque giorni?

Per prima cosa vorrei spendere due parole sul brano vincitore: “Soldi” di Mahmood. Il pezzo è trascinante e moderno e la vocalità del giovane interessante e particolarissima. Ben venga, quindi una musica innovativa ed originale.

Detto questo ho trovato particolarmente degni di nota tre brani, che sicuramente mi accompagneranno ancora per molto tempo.

Il primo è “Argento vivo” di Daniele Silvestri. Inequivocabilmente attuale, è un pugno nello stomaco per chi si occupa di educazione e per tutti gli adulti, che dovrebbero riflettere bene ascoltandolo.

L’uso del rap e quindi del linguaggio musicale che in questo momento è forse il più vicino a quello giovanile, rafforza il ritratto di un sedicenne che si sente imprigionato e si trincera dietro un muro di incomunicabilità.

Il secondo è “Dov’è l’Italia” di Francesco Motta, che mi ha coinvolto ad ogni ascolto sempre di più. Il racconto di un marinaio che ha sentito alcuni migranti chiedersi dove fosse l’Italia ha fornito il pretesto al cantautore toscano per manifestare il senso di smarrimento, personale e collettivo, che in questo periodo storico è imperante. Solo l’amore e i sentimenti più autentici, probabilmente, possono fare da protezione e da antidoto a questo spaesamento.

“Perché nascosto sono stato quasi sempre/ Tra chi vince e chi perde/A carte scoperte

Mentre qualcuno mi guarda/ E qualcun altro mi consuma/ Per ogni vita immaginata

C’è la mia vita che sfuma/ E in un secondo penso a chi mi è stato accanto

In un pensiero lontano/ Ma nello stesso momento/ Tu su un tappeto volante

Tra chi vince e chi perde/ E chi non se la sente

Dov’è l’Italia amore mio?/ Mi sono perso/ Dov’è l’Italia amore mio?”

“Sono solo quattro accordi e un pugno di parole” dice Simone Cristicchi in “Abbi cura di me”, ma questa canzone è molto, molto di più. Sin dalla prima sera ho provato un’intensa commozione durante l’esibizione del “fabbricante di canzoni”. Anche solo dallo schermo i suoi occhi trasmettevano tutta l’emozione provata nell’interpretarla.

In pochi minuti e con una disarmante semplicità e autenticità sono riassunti dei messaggi fondamentali: la bellezza della vita, delle piccole cose che alla fine sono quelle essenziali, il coraggio di affidarsi all’altro, di manifestare la propria fragilità e di chiedere le cure di chi si ama.

“Il tempo ti cambia fuori, l’amore ti cambia dentro

Basta mettersi al fianco invece di stare al centro

L’amore è l’unica strada, è l’unico motore

È la scintilla divina che custodisci nel cuore

Tu non cercare la felicità semmai proteggila”

 

La musica di accompagnamento soave, ma solenne amplifica il potere evocativo di un testo vibrante di poesia.

“Ti immagini se cominciassimo a volare

Tra le montagne e il mare

Dimmi dove vorresti andare”

Si riesce a volare davvero con l’anima e con il cuore ascoltando “Abbi cura di me”.

L’attenzione a ciò che si narra attraverso la propria arte, alla qualità di quello che si propone è presente in tutti e tre gli artisti citati ed è ciò  che rende le loro composizioni pregevolissime a prescindere da qualsiasi classifica o premio.

Se vedo te di Arisa (Warner Music Italy, 2014)

Per la “rubrica” Intermezzi musicali ho deciso di “ripescare” un album meraviglioso di Arisa, “ Se vedo te”, del 2014, che merita enorme considerazione per la sua originalità e per la sua ricercatezza.

L’artista lucana vince  Sanremo proprio nel 2014 con “Controvento”, orecchiabile, pop, diffusamente cantata e apprezzata dal pubblico.

Al Festival, però, ha presentato anche un altro brano, inserito ovviamente nel disco, che ne rappresenta bene l’essenza. Lentamente (il primo che passa) è un brano estremamente raffinato sia per quel che concerne la musica sia per quel che riguarda le parole, un bolero (come dicono  tecnici) a primo impatto forse ostico e con una prima parte piuttosto “chiusa”, ma che poi si apre con grazia, diventando ariosa e leggera.

Mi pare che questo album sia riassunto qui. Esso si caratterizza infatti per una forte espressività, testi che vogliono smarcarsi dalla banalità, anche a costo di mancare di immediatezza,  ricercatezza nei suoni e una voce cristallina, potente ma soave al tempo stesso; angelica, ma graffiante in alcuni momenti come in “Quante parole che non dici”. Il ritornello di questa canzone (“Quante parole che non dici o vorresti gridare. Col tempo vedrai, esploderanno tutte nello stesso momento, tutte fino a farti sentire meglio”) è un misto di rabbia, di desiderio di liberarsi finalmente del fardello di quelle parole che pesano, ma sono necessarie e di senso di liberazione.

A dare il titolo al disco è “Se vedo te”, scritta da Cristina Donà e Saveiro Lanza, un’altra piccola gemma per la sua eleganza e per la sua originalità. Ascoltandola penso ad un oggetto di cristallo, delicato, spigoloso, trasparente in cui il suono si rifrange, si libra e poi ritorna.  Particolarmente riuscito e coinvolgente è il ritornello: “Faccio spazio dentro agli occhi perché tu li riempi. Faccio strada nei miei occhi perché tu li attraversi”

Una menzione speciale va al brano “Sinceramente”, composto da Dente il cui tema è un rapporto che si spegne lentamente e in cui si avvertono molto intensamente una sorta di dolore sommesso che diventa quasi rassegnazione, un senso di impotenza per il verso che questa relazione ha preso.  Un vena di malinconia si fa largo nel canto insieme ad un senso di vulnerabilità estremamente vero.

“Cuore che non vede dà peso alle parole cuore che non vede che si spengono le cose. Cadono i vestiti, piangono i poeti, cambio le lenzuola che fioriscono i pensieri”.

“Dimmi se adesso mi vedi” è il brano più struggente, cupo e dolente del disco, impossibile non esserne colpiti e non commuoversi dopo averlo ascoltato. “Raccolgo il vento e il mare è andato via
e resta solo il sale su di me”.  Quanto è evocativa l’immagina di questa donna che sulla riva del mare, reale o metaforico, cerca di risanare le ferite provocate da mal d’amore.

Ai pezzi sopracitati vanno aggiunti la dolcissima “La cosa più importante”, l’intensa “Dici che non mi trovi mai”, la sognante “Stai bene su di me” e l’estrosa “L’ultima volta”.

Chiudo con la nota più frizzante del disco, che ho amato sin dal primo ascolto. In “Chissà cosa diresti” con estrema ironia si riflette su un passato sentimentale che provoca rimpianto, ma ricordato con una certa levità, il tutto impreziosito dall’interpretazione fenomenale della cantante di Pignola.

Se vi ho incuriosito un po’ correte subito ad ascoltare questo pregevolissimo lavoro che rappresenta un tassello davvero importante della carriera di Arisa.

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