Sono passati tre anni da “Non abbiamo armi” e mi sono interrogata spesso su come sarebbe stato il nuovo disco di Ermal Meta. Sapevo che avrebbe proposto qualcosa di nuovo, che avrebbe mostrato altre sfaccettature della sua arte, e in parte così è stato. Il sound, infatti, è leggermente diverso (c’è più elettronica) e lo sguardo, il serbatoio da cui attingere per le canzoni, è sempre profondo ma più ampio. Non è una novità la capacità di far vibrare le corde del cuore e non è una novità la capacità di narratore di Ermal. Lo so, sarà deformazione la mia, ma nei brani di “Tribù urbana” intravedo un romanzo in cui vengono cambiati spesso narratore e punto di vista.
A volte il cantautore racconta di sé, arrivando a parlare in prima persona, a volte cita dei nomi per raccontare storie particolari, altre volte racconta “il destino universale”. Proprio in questa canzone, una delle mie preferite dell’album, c’è il senso di questo lavoro.
“Gira, gira sai com’è/ non gli importa dei perché/ sia nel bene che nel male/ tocca a te e pure a me/ gira, gira sai che c’è/ lo fa senza chiedere/ il destino universale/ tocca a te e pure a me”
Yusuf, Marta, Marco, Tommaso, Ermal, citati nel brano, hanno vite diverse, ma accomunate dal fatto che hanno un destino simile: ognuno di loro (e di noi) lotta per sopravvivere, perché “la vita è importante”.
I versi dedicati a Marta mi hanno commossa particolarmente. Lei è paragonata ad un fiore tra le pietre e immediatamente ho pensato alla Ginestra di leopardiana memoria, un fiore che resite in condizioni difficilissime.
Quello dell’unione è un concetto che torna anche in “Uno”, l’interludio, il pezzo candidato ad aprire i prossimi live. In effetti, voci che cantano all’unisono e mani che muovono l’aria fanno pensare ad uno “spazio” in cui condividere e sentirsi uniti nel nome di una passione (la musica), ossia un concerto.
“Non bastano le mani”, pugno fortissimo nello stomaco, sembra una pagina di diario, quella in cui si scrivono le parole più intime, nella quale ci si mette a nudo, con dolore ma con coraggio e verità. Il brano si apre con l’intro della versione alternativa di “Vietato morire” e non è casuale. È uno dei momenti in cui Ermal ci permette di vedere la sua anima in controluce.
“Non parlo mai di me, non dico mai tutte le cose/ ci sono melodie difficili da intonare
non parlo mai di me che poi mi torna tutto su/ e di parlare poi/ non ce la faccio più/ non ce la faccio più”.
Delicata e potente è “Nina e Sara”, che racconta l’amore tra due donne negli anni ‘80, negato dalle convenzioni. Il pezzo ha una decisa impostazione cinematografica (ci sono immagini nitidissime che sembrano inquadrature, ed ascoltandola ho pensato al trailer di “Io non ho paura” di Gabriele Salvatores), ma potrebbe essere tranquillamente un racconto.
Ermal riesce ad affrontare una tematica complessa con grazia e forza come in “Gli invisibili”, canzone intensissima.
“Siamo gli ultimi di questa lunga fila/ siamo quelli che ci manca ancora una salita/ quelli che vedi quasi sempre sullo sfondo/ siamo gli invisibili che salveranno il mondo”.
La dedica agli “ultimi” lascia emozionalmente disarmati, è bellezza pura che fa bene all’anima. Empatia è il termine al quale penso ascoltando questo brano.
“No satisfaction” è il ritratto schietto e non edulcorato della realtà contemporanea, è il brano più radiofonico e ritmato.
“Stelle cadenti” all’ascolto mi ha dato l’impressione di un flusso di coscienza, di una confessione e una richiesta d’affetto fatta in un momento in cui il protagonista ha “bevuto troppo”, come si legge nel testo.
“Dimmi che mi vuoi bene/ anche se non ci credi/ dimmi che mi vuoi bene finché resto ancora in piedi/ dimmi che vuoi partire/ prestami dei ricordi/ dimmi che mi vuoi bene sempre più di tutti gli altri”.
Non manca lo spazio per il romanticismo, come in “Un milione di cose da dirti”, che ha portato Ermal sul podio del settantunesimo Festival di Sanremo. Ermal l’ha definita una semplice canzone d’amore, ma parlare d’amore senza risultare banali e ripetitivi, però, non è affatto semplice.
Non c’è niente di scontato nell’immagine di un sentimento che permette di farsi carico del “peso” dell’altro, di prenderlo sulle spalle e di aiutarlo a volare. Chi ama davvero fa questo: alleggerisce e rende libero l’altro. Vorrei anche evidenziare il parallelismo con la meravigliosa “Voce del verbo” che recita: “se non sai cosa dire, tu non dire niente”, a riprova del fatto che nella “narrativa” di Ermal ci sono immagini ricorrenti e che ci descrivono il suo mondo.
Anche “Un po’ di pace” è romantica, morbida e d’atmosfera. Immagino di ascoltarla dal vivo in un teatro con luci quasi spente e i ricordi accesi.
Avrei un altro milione di cose da scrivere, ma è meglio lasciar parlare le note e le parole di “Tribù urbana”, un lavoro sicuramente poco “popolare”, molto cantautorale, che avrà molto da dire a chi lo ascolterà.