Il terzo capitolo della storia artistica di Ermal Meta s’intitola “Non abbiamo armi”, lavoro in cui le sue parole e la sua musica appaiono più “leggere” e libere che mai.
Le dodici tracce del disco sono tutte orecchiabili e di grandissima qualità.
La ricerca di sé, l’amore che può finire o far soffrire ma è l’unico riparo dalla caducità del tempo e del mondo, la fragilità e la forza dei sentimenti che fanno male, ma fanno sentire vivi, gli abbracci che sono “lo spazio più importante”, simbolo del contatto umano che può solo far bene, la quotidianità, sono i nuclei fondanti di un album scorrevole come un meraviglioso libro che di legge tutto d’un fiato.
L’incipit di questo singolare libro è costituito da “Non mi avete fatto niente”, presentata a Sanremo con Fabrizio Moro, che potremmo definire, citando un altro grande cantautore, una “canzone contro la paura”. Un po’ come “Vietato morire” il brano sembra voler veicolare la speranza nella bruttura più assoluta. “Scambiamoci la pelle in fondo siamo umani” è un delle frasi più rappresentative del brano: se provassimo a metterci nei panni dell’altro e a non combatterlo, questo “corpo enorme che noi chiamiamo Terra” sarebbe sicuramente più sano. Il testo è di forte impatto emotivo, ma anche le voci dei due cantanti sono di un’espressività incredibile: l’eleganza di Ermal ben si amalgama con la forza di Fabrizio Moro. Uno dei momenti più intensi lo riscontriamo quasi nel finale quando il falsetto di Ermal, che a mio avviso rappresenta quasi un pianto disperato ma composto, si contrappone all’urlo rabbioso di Moro.
Dopo un pezzo tanto impegnativo arriva “Dall’alba al tramonto”, tutta da ballare e con un ritornello che si canta immediatamente. È perfetta per l’estate e potrebbe avere un enorme successo radiofonico.
Si cambia ancora atmosfera con “9 primavere”: la pioggia che accompagna il ricordo di una storia d’amore ormai finita, si mescola a lacrime di rimpianto, lacrime ricche di amarezza ma anche di tenerezza. La malinconia del ricordo sembra avvolgere e quasi consolare, lenire un dolore espresso con dolcezza disarmante. “Sono solo lacrime/e non è proprio niente di speciale/una per ogni passo insieme/ una per ogni notte ad ascoltare canzoni d’amore”.
“Non abbiamo armi”, la title track, è anche la canzone che meglio riassume l’album con suoni limpidi e un testo che con la sua linearità riesce ad essere struggente: “Non abbiamo armi contro il cambiamento/ma adesso tu mi puoi proteggere dentro ad un abbraccio”; “non abbiamo armi/per difenderci dagli altri/non abbiamo armi/ma abbiamo queste mani che servono da scudi”.
“Io mi innamoro ancora” ha una melodia capace di far illuminare il viso con un sorriso, riesce a rendere il senso di sicurezza e gioia che può donare la semplicità delle cose solo all’apparenza più banali. “
Anche “Le luci di Roma” racconta lo spegnersi di un amore, con l’aiuto dell’immagine evocativa delle città eterna. Un po’ come New York nel precedente album qui l’assenza non è vuoto, anzi pervade l’anima riempiendola e “il rumore più forte è lo stesso silenzio che sento di noi”, dice l’autore
“Caro Antonello” è il brano più ruvido del disco. Avverso un senso di disillusione e forse di sconforto nel pezzo, ma non manca uno spiraglio di positività (“evviva la vita con il suo puzzo e sudore”). Il pezzo, dedicato ad Antonello Venditti è anche, a mio parere, un omaggio all’immenso potere della musica (“ mentre si canta non si può mai morire”, “un canzone spietata appare come una rosa”).
“Il vento della vita” ha un’ariosità e una carica emotiva trascinanti. Nel corso di quest’avventura tanto meravigliosa quanto complessa che è l’esistenza, in cui siamo appunto come sballottati dal vento che però può darci anche la giusta spinta per navigare, si “può cadere, rialzarsi e poi sognare”, “gli ostacoli son tanti” ma tutto porta ad incontrare se stessi e l’altro. “Io non ho perso tempo, ho perso vento per gonfiare le mie vele e navigare in mari sconosciuti/e non ho perso tempo/a volte ho perso me/ per poi ritrovarmi e ripartire”.
In “Amore alcolico” mi ha immediatamente colpito il neologismo “innammazzato”, che potrà anche apparire poco ortodosso, ma rende benissimo l’idea della sofferenza amorosa, tema centrale della canzone.
“Quello che ci resta” è un brano che quasi sottovoce si insinua nel cuore di chi ascolta grazie alla sua atmosfera calda tra le righe si passa il concetto che si deve avere il coraggio di amare anche se si può stare male ed essere feriti. Splendido il ritornello che recita: “Se ci fosse anche per me una carezza per ogni mio errore/avrei un cuore bellissimo sì/senza un graffio e senza paure, ma l’amore che spacca le ossa non lascia ferite”.
Il ritmo martellante di “Molto bene, molto male”, che una volta di più incita a rischiare e fare sempre in ciò che si crede, ci conduce verso lo straordinario finale con “Mi salvi chi può”, divisa in due parti. La prima, con un sound elettronico, è evanescente ed eterea e ben esprime la ricerca di quel qualcosa che manca sempre “se persino l’infinito è mancante”; la seconda invece è potente e cupa per rendere quelle “Parole di rabbia [..]./per non sentire la noia che ci divora, per esprimere quasi la paura della solitudine “Perché da soli fa male/pure l’aria/anche una goccia di buio/ti avvelena un sole intero/di felicità”.
“Non abbiamo armi” è, per sintetizzare, l’ennesima conferma dell’immenso talento di Meta, ma anche un passo in più nel suo costante lavoro di cambiamento e di ricerca.
Detto questo non mi resta che augurare anche a voi buon ascolto e scrivere, per questa recensione, la parola fine.
Elena
Ermal riesce a emozionanti con parole semplici, lo devi saper ascoltare ad occhi chiusi x capire e comprendere al meglio i suoi messaggi. Lui stesso è di una intensità unica, la sua musica oltre a conquistati, riesce a penetrare l’animo umano creando magiaaaaa.
Giuliana Benedetto
Verissimo! Grazie per aver scritto.
Lsvinia
E stupendo
Giuliana Benedetto
Sono d’accordo! Grazie mille per aver commentato.